Conlon rischia con un Onegin solo stilizzato
Di solito, il problema di eseguire Evgenij Onegin — musica di Cajkovskij, da Puskin — è di evitare l’eccesso di passione disperata e tumulto febbrile al quale sono usi i direttori, come si dice, col «cuore in mano». All’opera di Roma però non si corre questo rischio, perché la prova di James Conlon è, viceversa, compassata, stilizzata al punto di correre il rischio, questo sì, di risultare fiacca. Si può poi decidere di nobilitare la cosa dicendo che il tutto rientra nel quadro di una rilettura elegiaca, anche perché qualcosa di funebre lo sprigiona non solo la musica in sé ma anche la messinscena: lo sono ad esempio le scene di festa, che a dire il vero un po’ funebri sono sempre. Resta il fatto che manca qualcosa.
È questo il neo di una produzione di alto livello, però. Il teatro ha allestito per la prima volta in Italia la spoglia, minimalistica ma così suggestiva messinscena (ampi spazi nudi, quasi niente scenografia, magistrali le luci, sontuosi i costumi d’epoca) creata da Robert Carsen nel ’97 (ma la si potrebbe dire odierna) per il Met di New York. Di suo, ha assemblato una compagnia di canto formidabile che vede in Markus Werba un Onegin intenso ma mai sopra le righe e in Maria Bayankina una Tat’jana dal vibrato troppo ampio eppure toccante per la versatilità con cui definisce i colori espressivi. Ottimo il patetismo di Saimir Pirgu (Lenskij), mentre Yulia Matochkina vanta la capacità di tratteggiare Ol’ga come personaggio secondario eppure forte, come è giusto che sia. Applausi molto calorosi per tutti.
Evgenij Onegin
Regia di Robert Carsen; sul podio James Conlon