«Il cacciatore», la lotta ai clan e la psicologia dei fratelli Brusca
L’ossessione per i criminali, la professione che si mangia la vita privata, le dinamiche famigliari e affettive dei peggiori carnefici. Il cacciatore è una serie che sapientemente bilancia registri differenti e svela anche i frammenti meno conosciuti di quel complesso e sfibrante processo che è stata la lotta alla mafia in Italia.
Dopo il successo della prima stagione, torna con il secondo atto un racconto che si sofferma sul personaggio di Saverio Barone (Francesco Montanari), alter-ego di Alfonso Sabella, giovane procuratore che negli anni 90 ha contribuito all’arresto di pericolosi latitanti come Leoluca Bagarella
o Giovanni Brusca. Ispirata al libro autobiografico Cacciatore di mafiosi, la serie (prodotta da Rai Fiction con Cross Productions) colma una lacuna nel racconto sul fenomeno mafioso testimoniando come, tra gli attentati a Falcone e Borsellino del ’92 e l’arresto di Provenzano del 2006, l’attività d’indagine non si sia mai fermata.
La seconda stagione, che conferma alla sceneggiatura la coppia Marcello Izzo e Silvia Ebreul, si apre con il tentativo di Barone e della sua squadra di entrare nell’abitazione segreta dei fratelli Brusca per liberare il piccolo Giuseppe Di Matteo. Dai modi burberi e spicci (un elemento che contraddistingue molti ispettori e commissari del nuovo corso della fiction di Rai2), nell’ossessione per il bambino Barone recupera un’empatia che non è mai totale, mentre il rapporto con la neomoglie Giada vive fasi alterne. Il protagonista non si dà pace, s’arrabbia, s’ingegna (posiziona una squadra di controllo all’osservatorio Astronomico di Palermo).
Uno degli aspetti più interessanti della seconda stagione è il rapporto tra i fratelli Giovanni ed Enzo Brusca; spietato e paranoico il primo, fragile e sfuggente il secondo, che dietro i tentennamenti lascia anche intravedere i lucidi meccanismi delle lotte di potere interne ai clan mafiosi.