Via col vanto
Rimango sempre affascinato dal modo di ragionare del Trump. Ieri se l’è presa con chi ha assegnato l’oscar a «Parasite». «Era proprio il caso di darlo a un film coreano, con tutti i problemi che abbiamo avuto con la Corea del Sud riguardo al commercio?». I suoi avversari sostengono che ad averlo infastidito siano stati i sottotitoli, dato che non sa leggere. Ma io vorrei prendere sul serio le sue parole. Per quest’uomo d’affari, anche l’arte e i premi fanno parte di una partita di giro. Che «Parasite» sia un bel film è secondario. Conta di più il fatto che il Paese da cui proviene non abbia buoni rapporti commerciali con gli Usa. Seguendo la logica del Trump, Hollywood non può premiare neanche un film svedese, finché Greta continua a rompere le scatole agli americani sul riscaldamento globale. Temo gli sfugga che il rito degli Oscar non appartiene agli Stati Uniti, ma al mondo intero. E che è proprio la convinzione, o almeno l’illusione, che tutto quanto è americano appartenga al mondo intero ad avere garantito il primato culturale agli Stati Uniti nell’ultimo secolo. Ma al Trump di questo primato culturale non importa un fico. A lui interessa solo quello economico, senza capire che l’uno è il riflesso dell’altro.
Il critico cinematografico della Casa Bianca ha espresso nostalgia per «Via col vento». Forse di quel capolavoro ricorda solo la battuta di Clark Gable: «Francamente me ne infischio». Sembra scritta per lui.