«Mercedes aspettava un bimbo era lì soltanto per portare la cena»
Lo strazio della madre della ragazza, tra le 9 vittime della strage razzista in Germania
Ci sono ancora troppe lacune nella ricostruzione di vita, azioni e ossessioni di Tobias Rathjen, 43 anni, l’ex impiegato di banca che mercoledì sera ha seminato la morte in due shisha bar di Hanau (a 20 chilometri da Francoforte), frequentati soprattutto da immigrati mediorientali, per restituire la città alla «pura razza ariana». Dopo aver ucciso 9 persone, l’uomo è tornato a casa, ha sparato alla madre Gabriela, 72 anni, risparmiato il padre, Hansgerd, 73, e rivolto la calibro 9 contro se stesso. Tobias disponeva legalmente di tre pistole, malgrado vagheggiasse lo sterminio di africani, asiatici e mediorientali in Germania, e avesse inviato lettere farneticanti alle procure.
Se mercoledì sera non si fosse assentato un paio d’ore dall’arena Cafè per andare a festeggiare il compleanno di un’amica, Jack ora non sarebbe qui a descrivere la scena apocalittica che si è presentata ai suoi occhi quando è ritornato, ignaro di tutto, al shisha bar del padre. Non credeva ai suoi occhi: «C’era un cadavere nell’auto parcheggiata di fronte. E altri corpi insanguinati per terra, nel locale. Li conoscevo tutti. È morto mio zio, Gökhan. Non è davvero mio zio, ma è come se lo fosse. Lavorava con noi da tanto tempo. Mercedes era venuta soltanto per portarci la cena. Non doveva essere qui».
Lei non doveva esserci, lui sì. E la madre di Jack, una colombiana divorziata da un turco e vissuta a Roma (dov’è nato suo figlio) non può che ringraziare l’imperscrutabile volontà del fato: «Ma capisco e soffro per i genitori di quelli che non hanno avuto la mia stessa fortuna — si affretta ad aggiungere Abaned che, per altri complicati intrecci famigliari, ha un nome di origini arabe e un fratello domiciliato ad Alghero —. Gökhan faceva parte della famiglia, viveva qui da vent’anni». L’età di Jack, che ha lasciato l’italia a 8 anni e ormai si sente più tedesco che turco o sudamericano. E comunque, fino a mercoledì sera, non pensava pol’aria tesse diventare una questione di vita o di morte.
Kesselstadt è un quartiere così, un miscuglio di etnie, nazionalità, idiomi che fino a tre giorni fa pareva pacifico. Ci si conosce e capisce in quell’affollata torre di Babele. Una città nella città, popolata da rom (ma qui si preferisce definirli «sinti»), polacchi, bosniaci, curdi, afghani. L’arena Cafè non era soltanto il ritrovo serale dei fumatori di narghilè: «Di giorno entrava anche qualche tedesco a bersi una birra o a comprare le sigarette» testimonia Iñaki che da Vitoria Gasteiz, nei Paesi Baschi, si è trasferito anni fa ad Hanau per trovare lavoro alla Dunlop. Una serie di etichette adesive in varie lingue e alfabeti segnala che da qui partivano anche le rimesse verso i Paesi d’origine. Una mano ha tracciato sulla vetrina un messaggio di pace in tedesco: «Il nostro amore è più forte del vostro odio».
è lacerata da un urlo spaventoso: è la madre di Mercedes Kierpacz, la ragazza sinti-polacca falciata assieme al bimbo che portava in grembo. La donna è venuta a vedere il luogo in cui ha perso la figlia e un nipotino mai nato. La trascinano via quando sta per crollare sul piccolo altare di fiori e lumini cui Johann, un pensionato tedesco, ha cercato invano di contribuire. Niente da fare: il vento spegne immancabilmente la fiammella. «Io me lo ricordo bene Tobias — rivela Abaned, prima di dileguarsi all’improvviso, come se la disperazione dell’altra madre le rinfacciasse la tortura cui lei è miracolosamente scampata —. Abito a qualche casa di distanza, in Helmholtzstrasse, a cinque minuti da qui. Lo incontravo spesso al supermercato, sempre solo. Non sorrideva mai, non salutava nessuno. Adesso ho capito che odiava a morte questo quartiere». Simbolo
Xenofobia e pazzia Al centro culturale turco-curdo, la storia del pazzo solitario non convince
della promiscuità che aborriva tra «ariani» e «razze impure». Secondo il giornale Bild, che ha rintracciato uno dei suoi rari amici d’un tempo, Tobias si era isolato dopo un infortunio al ginocchio che aveva stroncato le sue ambizioni calcistiche e aveva lasciato il posto in banca perché scontento dello stipendio. Viveva con i genitori, nella cameretta in cui era cresciuto, rimuginando ossessioni e ansia di vendetta. Un malato mentale, per gli investigatori.
Ma a pochi chilometri di distanza, nella sede del centro culturale turco-curdo, la storia del pazzo solitario non convince. Quasi metà delle vittime appartenevano alla comunità, che da tempo si sente in pericolo: «Esistono gruppi clandestini di estrema destra, già responsabili di altri attacchi razzisti, la polizia lo sa», ricorda Nazim Turan.