Denis Johnson, vivo e selvaggio Ecco perché dobbiamo leggerlo
Maestri Capace di stare per giorni su un aggettivo, metteva il rigore al servizio di storie incredibili. Come ne «La generosità della sirena» (Einaudi)
Arrivati alle ultime righe di Emergency — uno dei meravigliosi racconti contenuti in Jesus’ Son, la raccolta del 1992 il cui titolo viene da un verso di Heroin di Lou Reed e l’opera che consacrò Denis Johnson tra i colossi della letteratura americana del Novecento — ci arriva una staffilata. Non è ben chiaro chi sia a darcela, se il narratore della storia o l’autore, ma non importa, perché con Johnson è sempre così: Quel mondo! Oggi è stato tutto cancellato e l’hanno arrotolato come una pergamena e messo via da qualche parte. Sì, lo posso toccare con le dita. Ma dov’è?
Fino a quel momento si è letto un racconto fenomenale, nelle cui quindici pagine son già comparsi dieci feti di coniglio, un uomo con un coltello da caccia infilato in un occhio, un drive in, la neve a settembre, un ospedale, Cowgirl in the Sand di Neil Young, un disertore diretto in Canada in autostop e, nel bel mezzo di questa sarabanda, Fuckhead e Georgie, i protagonisti, due quasi trentenni che non fanno che drogarsi mentre bighellonano fingendo di lavorarci, in quell’ospedale, e son diversi da tutti gli strafatti di cui abbiamo già letto mille volte in mille romanzi perché scarrocciano nella vita tra dolore e sofferenza, sì, ma anche candore, anche stupore, e soprattutto senza disperazione, senza lacrime, senza pensiero. Dev’esser così che funziona, lasciarsi andare. Preghiamo di non saperlo mai.
Leggere Denis Johnson vuol dire mettersi in viaggio per una terra sconosciuta, sballottati tra l’entusiasmo e l’ammirazione, seguendo un genio che cammina davanti a noi e intanto ci sussurra storie umanissime e terribili dai margini della vita, e comiche, e tristi, che si rifiutano di star ferme lì a significare una cosa sola e continuano a sfarinarsi e dissolversi in altre storie, e mentre si arranca ammirati dietro a quelle semplici, selvagge parole, bisogna ricordarsi di fermarsi spesso a raccattare i diamanti purissimi che l’autore lascia a manciate dietro di sé come se gli scivolassero via dalle maniche, invece d’essere il risultato d’un labor limae furibondo e ininterrotto, che lo costringeva a rimanere per settimane su una frase, e persino su un aggettivo.
Se è vero, verissimo che i personaggi di Denis Johnson son sempre dei derelitti intenti a lacerare ogni giorno e in ogni modo possibile le loro vite, la flebile speranza d’una redenzione non è mai troppo lontana, e a tormentarli è spesso il ricordo d’un passato migliore, di quel mondo cancellato e arrotolato come una pergamena e messo via da qualche parte ma si può ancora toccare con le dita, appunto, che però continua a pungere e dolere, e allora bisogna chetarlo, questo ricordo, ottunderlo, e non esiste modo migliore di continuare a muoversi, vagare a vuoto da una bettola all’altra, da una dose all’altra, da una pasticca all’altra perché c’è sempre un’automobile o un treno o un bus o una metropolitana a trasportare verso il nulla i personaggi di Johnson, che son sempre in movimento ma da nessuna parte riescono mai ad andare davvero e forse nemmeno lo vogliono, come se gli bastasse continuare a perdersi nell’immensa America, e poi son sempre troppo fatti o troppo ubriachi, e finiscono in incidenti stradali terrificanti come quello di Car Crash While Hitchhiking, o minimi come quello delle tre studentesse di Happy Hour — altri due splendidi racconti di Jesus’ Son — che partono per andare a cercare dell’erba taiwanese, qualsiasi cosa sia, ma sbattono al rallentatore in un palo del telefono prima ancora di uscire dal parcheggio, e allora scendono dalla macchina e se ne vanno via barcollando, lasciandola lì, con le portiere aperte, mentre il vento scompiglia i loro capelli.
A qualcuno potranno venire in mente i migliori momenti di Bukowski e soprattutto di Raymond Carver, di cui Johnson
seguì i corsi all’università dell’iowa, ma se è vero che, come quella di Carver, anche la carriera di Denis Johnson inizia con la sobrietà, l’intenzione del Nostro non sembra mai quella di volerci narrare il tormento senza fine della cronaca di un’abiezione quanto, invece, farci sentire il grido di chi dall’inferno è riuscito a scappare e ci racconta che accanto alla morte e al dolore e alla sofferenza ci son stati anche attimi di pura felicità, e la bellezza, e il fremere della vita dentro le vene.
Perché in verità non somiglia davvero a nessuno, Denis Johnson, tantomeno a Carver e a Bukowski, e lo si capisce dai libri che l’hanno influenzato e reso uno scrittore, Il giovane Holden e Tom Sawyer e Huckleberry Finn, perché, diceva, come Jesus’ Son parlano all’esperienza dell’anima giovane, e poi aggiungeva, riguardano il viaggio di un’anima giovane.
Scriveva come un dio, Denis Johnson, e dentro la sua prosa splendeva la poesia, ed era uno writers’ writer extraordinaire, amato da Roth e Franzen e De Lillo e Zadie Smith e George Saunders e David Foster Wallace, che ne dicevano meraviglie forse perché si rendevan conto appieno — come Salieri con Mozart in quella memorabile scena di Amadeus — di quanto fosse difficile scrivere come lui, che nelle sue opere migliori riesce sempre a mettere la misura, la precisione e il rigore al servizio d’una immaginazione selvaggia, mentre tiene lo sguardo sempre fisso sulle viscere e sul cuore addolorato dell’umanità.
Ho letto quattro libri suoi, tutti in inglese: il capolavoro Jesus’ Son, Angels — il primo romanzo che uscì nel 1983 perché fino a poco prima non aveva praticamente fatto altro che bere e bucarsi —, la raccolta di poesie Incognito Lounge, e The Largesse of the Sea Maiden, la raccolta di racconti che uscì postuma e che Einaudi ha ripubblicato di recente col titolo La generosità della sirena, tradotta da Silvia Pareschi, fresca e meritata vincitrice del premio per la traduzione della Classifica di Qualità de «la Lettura».
Leggetelo anche voi, Denis Johnson. Non c’è verso di spiegare adeguatamente la sua grandezza, e provarci rassomiglia a cercare di sbuzzare un pesce con un martello. La si può solo invocare: in Work, forse il migliore dei racconti di Jesus’ Son, due disperati si introducono in una casa abbandonata sulle rive d’un fiume e si mettono a rubare i fili di rame strappandoli via dalle pareti marce per raccattare i dollari che servono per bere, e mentre son lì ecco passare veloce una barca a motore, e attaccato alla barca, a una trentina di metri d’altezza, uno di quegli aquiloni giganti, un kite, e in cima alla corda del kite, sospesa in aria, c’è una donna nuda coi capelli rossi che fluttua sul fiume e sulla casa dilapidata.
E poi il racconto prosegue, e viene fuori che la donna coi capelli rossi era la moglie di Wayne, uno dei due disperati, e anche la casa un tempo era di Wayne, e il narratore a un certo punto dice di esser certo d’esser finito dentro a un sogno di Wayne, e che comunque, sogno o non sogno, era stato uno dei giorni più belli della sua vita.
Eccola, l’anima giovane!