Quei tormenti dell’artista in una grande prova d’attore
Un lungo percorso di riscatto alla disperata ricerca di se stesso, del proprio io. Questa è la storia del pittore Antonio Ligabue secondo Giorgio Diritti che l’ha raccontata così in Volevo nascondermi, applaudito ieri alla Berlinale. Per far pace con se stesso e imparare a controllare le paure e le ossessioni (soffriva di misofonia: certi rumori come la tosse lo ossessionavano), dovrà compiere una lunga strada, fatta di sofferenze e vergogne (la prima inquadratura è solo per il suo occhio, che si nasconde sotto un abito nerissimo) perché l’infanzia era stata dolorosa: «Tu non meriti di esistere» lo apostrofa il maestro elementare. E già adolescente si presentava scusandosi perché «io non so stare alle regole». Poi troverà anche persone comprensive, potrà coltivare la passione per il disegno, verrà riconosciuto per quel che vale — «sono un artista» — ma la lotta con le proprie angosce non finirà mai. Questo percorso biografico, però, è solo un’esile traccia perché Diritti non cerca una ricostruzione tradizionale, ma piuttosto vuole illuminare singoli momenti, anche a costo di offuscare certi riferimenti cronologici (i ricoveri in manicomio, per esempio). Sceglie solo quello che può raccontarci la follia, la paura, il mistero di un personaggio tormentato, che Elio Germano fa vivere con controllatissima maestria, mai una sbavatura di troppo, mai un cedimento al folclore o al romanzesco. In un mondo campagnolo che risplende come in un quadro a olio, Volevo nascondermi ci accompagna con delicatezza e dolcezza (come si sente che Diritti ama il suo personaggio! Quasi da identificarsi) nella testa e nel cuore di un essere umano che altri uomini volevano mettere al bando. Commovente.