Una pace (zoppa) dopo diciotto anni
Incognite e ferite: libertà, condizione femminile, clausole segrete
Èuna pace zoppa quella firmata ieri per l’afghanistan, ma è pur sempre una pace dopo 18 anni di massacri e di guerra senza vincitori. È la pace di Donald Trump, che vuole avere il tempo e il modo di ritirare dalla «Tomba degli imperi» afghana quasi tutti i suoi 13 mila soldati prima delle elezioni presidenziali di novembre.
Già tra 135 giorni il Presidente potrà esibire agli elettori statunitensi una riduzione del contingente a 8.600 uomini. Quanto dovrebbe bastargli per rimanere alla Casa Bianca.
È la pace dei talebani, ai quali per tornare al potere viene chiesta soltanto la stessa pazienza che ebbero i nordvietnamiti quando gli statunitensi cominciarono a ripiegare, fino a quell’ultimo sovraccarico elicottero in partenza nel 1975 dal tetto dell’ambasciata di Saigon.
Forse si può sperare che sia anche la pace delle popolazioni civili afghane, che hanno pagato un prezzo esorbitante alla ferocia o alla mancanza di cautela di entrambi gli schieramenti.
Ma non è la pace, questa, degli afghani che si sono battuti con enormi perdite a fianco degli occidentali, e che ora sono stati esclusi dai negoziati con i talebani in cambio di un vago «dialogo interafghano» che proprio ieri ha fatto emergere un primo contrasto sul numero di prigionieri che il governo di Kabul dovrebbe liberare (cinquemila?) in cambio dei mille lasciati andare dai talebani.
E non è nemmeno la pace, questa, delle popolazioni urbane che durante la presenza degli occidentali hanno conquistato margini di libertà individuale impensabili prima che l’attacco alle Torri Gemelle nel 2001 provocasse la risposta armata dell’america. È un bene che i talebani abbiano promesso agli Usa di impedire che terroristi sul modello di al-qaeda tornino a minacciare gli Stati Uniti dal suolo afghano. Ma cosa accadrà alla società che in quasi due decenni è nata e cresciuta, alle donne orgogliosamente affrancate seppur nei limiti delle tradizioni, ai giovani, alle minoranze? Le promesse fatte sono vaghe, e colpisce che i talebani continuino a parlare, per il futuro anche prossimo, di un «Emirato Islamico dell’afghanistan» che non può essere considerato di buon auspicio.
E come non ricordare, proprio oggi, i nostri morti tra tanti altri morti, i 54 militari italiani che in quella terra lontana hanno lasciato la vita combattendo sì ma cercando anche di fare del bene. E noi del Corriere, possiamo forse dimenticare la collega Maria Grazia Cutuli che alla fine di quel 2001 in Afghanistan fu uccisa perché voleva raccontarci orrori evidenti e orrori nascosti?
Oltre a essere zoppa, questa road map per la pace afghana tocca cicatrici profonde. Ma alla fine sarà come sempre una storia fredda e cinica a decidere se la pace ci sarà davvero, e se sarà giusta, o almeno tollerabile per chi lì si è battuto tanto a lungo. I talebani hanno ottenuto ieri scadenze precise davanti alle quali gli americani ancora nello scorso settembre storcevano la bocca: non solo le forze Usa saranno ridotte a 8.600 uomini entro 135 giorni e di pari passo dimagriranno i contingenti alleati (gli italiani sono oggi circa novecento, con compiti di istruttori), ma entro quattordici mesi tutte le forze straniere, statunitensi, italiane o di altri Paesi, saranno fuori dall’afghanistan. A condizione che i talebani tengano fede ai loro impegni. Una condizione fragile, verrebbe da dire, perché non è immaginabile che il Trump che conosciamo, oppure un Trump rieletto a novembre, oppure ancora un suo successore, vogliano ri-coinvolgere l’america in una guerra afghana. E lo stesso vale per gli alleati. Per questo i talebani fanno fatica a non gridare vittoria, oggi. Per questo i talebani faranno del loro meglio per non deludere Washington,
per incoraggiare Trump a non aspettare tutti i quattordici mesi e per favorire la sua rielezione: lui, di sicuro, non potrebbe contraddirsi e tornare indietro.
La Casa Bianca, delusa dalla Corea del Nord, trova in Afghanistan il successo di politica estera di cui il Presidente aveva bisogno. Ma nessuno può nascondersi che le insidie sono già in attesa. Questa è una pace singolare, che non ha stabilito nemmeno un cessate il fuoco ma soltanto una approssimativa «riduzione della violenza». Come giocherà la feroce rivalità politica tra i presidente Ghani e il suo premier Abdullah quando Kabul dovrà «dialogare» con il fronte compatto e sprezzante dei talebani? Quante clausole degli accordi sono state tenute segrete, e potrebbero esplodere come mine lungo il cammino che porta alla scadenza dei quattordici mesi da oggi (per esempio, i militari Usa vorrebbero garantire a Kabul la copertura aerea contro i talebani anche dopo il ritiro) ? E i talebani, a loro volta, si mostreranno uniti, come in realtà non sono mai stati?
La pace zoppica, e le sentenze definitive sono rinviate senza ottimismo. Come accade sempre nelle guerre che non si riesce a vincere