Fellini, «La strada» è giusta
«Ecco come il regista ci ha lasciato una grandiosa eredità spirituale»
Se si volesse liberamente ricorrere alla fantasia creatrice dello stesso Fellini, sarebbe suggestivo pensare a una sorta di fermo-immagine. Al centro — nell’orizzonte trascendente in cui ora è collocato, un orizzonte non assente nella filigrana del suo mondo simbolico — il regista tiene tra le mani squadernata davanti a sé la lenzuolata centrale che domenica 19 gennaio l’«osservatore Romano» gli ha dedicato, nel centenario della sua nascita. Il direttore del quotidiano della Santa Sede, Andrea Monda, inseguiva «il filo che congiunge la Laudato si’ e La strada», mentre un altro giornalista elencava l’alfabeto felliniano scoprendovi «il caleidoscopio di un mondo sospeso tra realtà e sogno» e l’autore del saggio dal titolo emblematico, «Fellini o della vita eterna», Alessandro Carrera, presentava il succo della sua tesi a prima vista sorprendente.
A Federico verrebbe spontaneo un sorriso perché sarebbe tentato di rievocare le sulfuree condanne che sessant’anni prima si leggevano su quelle stesse pagine: infatti, dopo l’uscita nelle sale della Dolce vita, a un articolo dell’«osservatore Romano» era sufficiente imporre il titolo lapidario «Basta!», mentre un altro articolo faceva il verso al film con un altrettanto lapidario «La sconcia vita». Molta acqua è passata sotto i ponti non solo del Tevere e le voci, allora isolate, di gesuiti preveggenti come padre Arpa o padre Taddei avevano elaborato una più serena e corretta ermeneutica di quel film e dell’intera produzione felliniana.
E questo si deve fare ora, ma non artificiosamente e apologeticamente riportando il regista sotto l’ala di una religiosità esplicita, ma attraverso un’analisi che percorra gli itinerari simbolici esistenziali e spirituali sottesi al flusso delle sue narrazioni o riflessioni per immagini.
Due soltanto sono i percorsi personali e semplificati che vorrei disegnare, con l’ingenuità di uno spettatore appassionato e spontaneo. Innanzitutto si presenta davanti al mio ricordo una specie di filo nero, di galleria oscura, che non può essere rubricata sotto la categoria etico-teologica di «peccato» o «colpa» ma che sicuramente fa affiorare una degenerazione, un fluire melmoso di volgarità o anche semplicemente di vanità. Altre volte è una vera e propria putrefazione, oppure una crisi di valori e di senso, un’ipocrisia che cela l’aridità interiore. Certo, il regista non giudica osservando, né punta l’indice, ma solleva impietosamente il velo. Gli esempi, sia pure frammentari, sono emblematici e penso siano custoditi nella memoria di tutti, a partire proprio da quel mondo che fa da sfondo permanente alla Dolce vita: superficialità, vanità, vizio, crisi suicidarie, banalità, eccessi.
La metafora della tenebra che ho sopra usato era stata già tratteggiata da un critico (molto più competente rispetto a me), Gianni Volpi: «Un viaggio nella notte, durante il sonno della ragione, attraverso una civiltà corrotta e putrescente nella quale tutto crolla di schianto, valori autentici e falsi miti, tradizioni secolari e convinzioni nate appena ieri». È in questa prospettiva che si riesce a comprendere la reazione sociale ed ecclesiale di allora.
Nel Bidone il trio di personaggi travestiti da prete, che girano per la campagna romana truffando, inaugura l’ingresso del regista nel mondo ecclesiastico, sia pure in forma parabolica. L’introspezione nelle anime di questi personaggi ne svela il vuoto, la solitudine e l’insoddisfazione: eppure è proprio questo deserto che può trasformarsi in invocazione alla grazia divina e alla salvezza, aperta a uno dei tre, il pittore fallito, attraverso l’incontro con una donna (Masina), a differenza di un altro, Augusto, falsamente pentito ma sempre ingannatore. È quell’ipocrisia che avrà in Roma la sua cifra simbolica nella sfilata di moda ecclesiastica con i volti incartapecoriti e gelidi dei cardinali e vescovi, particolari «modelli», simili ai sepolcri imbiancati evangelici.
Sempre in questa traiettoria, nell’autobiografico 8½ sarà un’altra passerella, accompagnata dalla marcetta clownesca indimenticabile di Nino Rota, a far emergere un altro ecclesiastico, il cardinale decrepito che freddamente e senza un fremito di umanità, proclamerà: «Chi ha detto che si viene al mondo per essere felici?». E l’eco nella memoria va all’emozionante Voce della luna, ispirato al Poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni (appena riproposto dalla Nave di Teseo), dove risuona quel monito terribile: «Di chi è la colpa? Cosa sono venuto a fare io in questo mondo?... In balìa del nulla?». Ma il mite protagonista, di nome Salvini (ben diverso dal suo omonimo attuale), intuisce una via di salvezza proprio nella voce muta della luna: «Se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse potremmo capire».
Nell’arcobaleno delle immagini felliniane brillano alcune figure che sono quasi evangeliche, apparizioni di luce e fiducia. Appartengono a quegli «ultimi» che incarnano la beatitudine dei «puri di cuore», dei «miti e umili di cuore», simili al Cristo. Alla radice c’è quella «grazia» divina che si esprime anche nella gratuità del gioco, come nei Clowns, ammirati dallo sguardo rapito del bambino che assiste al montaggio del circo. In questa categoria s’iscrivono i vari «matti» che occhieggiano in diverse occasioni nei film di Fellini, variante dell’«idiota» dostoevskiano, espressione di conoscenza trascendente (è d’obbligo citare il Matto della Strada e il protagonista della Voce della luna).
Nella sfilata di queste figure «evangeliche» si presenta certamente nella Dolce vita la ragazza (incarnata da Valeria Ciangotini) che, all’alba di un nuovo giorno dopo la notte dell’orgia, vanamente interpella un sordo Marcello Rubini-mastroianni con la sua voce e i suoi occhi pieni di innocenza e di speranza. Una redenzione vanamente offerta, che ha un’altra rappresentazione nella prostituta dal cuore puro e ingenuo delle Notti di Cabiria che crede nella possibilità di una diversa esistenza, inserendosi nella processione al santuario della Madonna del Divino Amore.
È, però, indubbio che per tutti la figura più folgorante, sorella ideale di Cabiria, non per nulla incarnata dalla stessa indimenticabile Giulietta Masina, è la Gelsomina della Strada.
È inutile aggiungere commenti a questa storia evangelica che è ormai inchiodata nell’immaginario collettivo con la vicenda narrata, ma soprattutto con la figura della protagonista. Più volte lo stesso Papa Francesco ha citato — persino nelle sue catechesi pubbliche — la celebre sequenza di Gelsomina col Matto, che è capace di trasformare le lacrime di quella donna luminosa in sorriso, la sua disperazione in speranza. Lei, che anticipa forse anche il tema degli «scartati», ultimi nella società e primi nel Regno di Dio, può essere il simbolo più alto della spiritualità di Fellini. Ed è con una citazione del dialogo tra Gelsomina e il Matto che concludiamo questa libera e semplificata lettura della grandiosa eredità culturale e spirituale lasciata a noi dal grande regista.
«Tu non ci crederai, ma tutto quello che c’è a questo mondo serve a qualcosa. Ecco, prendi quel sasso lì, per esempio». «Quale?».
«Questo... uno qualunque. Ecco, anche questo serve a qualcosa, anche questo sassetto».
«E a cosa serve?». «Serve... ma che ne so! Se lo sapessi sai chi sarei?». «Chi?».
«Il Padreterno che sa tutto: quando nasci e quando muori. Non lo so a cosa serve questo sasso io, ma a qualcosa deve servire. Perché se tutto è inutile, allora è inutile tutto. Anche le stelle, almeno credo... e anche tu. Anche tu servi a qualcosa, con la tua testa di carciofo».
Gli ultimi Nell’arcobaleno delle immagini felliniane brillano alcune figure che sono quasi evangeliche