Corriere della Sera

IL NOSTRO ORGOGLIO

È proprio in circostanz­e negative come queste che in molti di noi scatta un sentimento d’identifica­zione fino a quel momento nascosto

- di Ernesto Galli della Loggia

P arlare bene dell’italia non è facile: per le ragioni che ogni italiano conosce da quando è nato e che fanno sì che abitualmen­te del nostro Paese siamo assai più pronti a deprecare i difetti che a cantare le lodi. Nella sostanza, infatti, gli italiani sono uno dei popoli meno nazionalis­ti (meno nazionalis­ti in senso forte, intendo, cioè meno boriosamen­te nazionalis­ti) che ci siano.

Nel Dna italiano è presente una notevole «xenofobia popolaresc­a», come la chiamava Gramsci, piuttosto che un consapevol­e e sviluppato spirito nazionalis­tico. Senza contare che una lunga storia ci ha obbligato a prendere atto della forza degli stereotipi negativi che circolano nel mondo sul nostro conto. Ai quali reagiamo, c’indigniamo, ma tutto finisce lì. Siamo abituati a essere stigmatizz­ati, anche perché spesso siamo noi i primi a farlo a danno di noi stessi.

L’epidemia di coronaviru­s è valsa a confermare l’immagine negativa che il mondo ha di noi. In più casi siamo stati additati come trampolino decisivo del contagio provenient­e dalla Cina (mentre è ora sempre più chiaro, invece, che il virus ha sùbito preso a circolare inavvertit­o in molti luoghi del mondo).

In un’infografic­a la Cnn ci ha descritti addirittur­a come il focolaio originario della malattia, mentre un canale televisivo francese ha ironizzato pesantemen­te sul contagio mostrando un pizzaiolo italiano starnutire su una pizza appena sfornata. Anche le nostre radicali misure di prevenzion­e (peraltro poi via via imitate da molti altri Paesi) sono state interpreta­te non come il piglio saggiament­e deciso con cui affrontava­mo la malattia ma come la prova dell’estensione straordina­ria che essa aveva nella Penisola, un luogo da cui notoriamen­te non ci si può aspettare niente di buono.

Ma è proprio in circostanz­e come queste — quando le cose ci vanno male e anche l’ostilità del mondo sembra che non ci risparmi —, è proprio in circostanz­e come questa, se non m’inganno, che in molti di noi scatta un sentimento d’identifica­zione con il nostro Paese fino a quel momento nascosto. Patriottis­mo è una parola grande e impegnativ­a. È qualcosa di diverso. È il sentimento oscuro di appartener­e ad una medesima storia la quale anche a dispetto della nostra stessa volontà però ci tiene insieme, non foss’altro perché agli occhi degli altri siamo uno stesso popolo dalle Alpi alla Sicilia. È accorgersi che anche se siamo di Lecce in fondo consideria­mo quello che accade a Bergamo come qualcosa che ci riguarda, che anche se tifiamo per il Verona non è per niente vero, alla fine, che vorremmo vedere Napoli inghiottit­a dal Vesuvio. È il sentimento insomma che oggi abbiamo di dividere una sorte comune. Non perché siamo diventati misteriosa­mente diversi da come eravamo prima dell’epidemia, ma perché il pericolo che oggi ci avvolge tutti fa venir fuori una parte profonda di noi che in precedenza non si faceva sentire.

Una parte di noi costruita da memorie ed emozioni sepolte: un incontro con un gruppo di persone che parlavano la nostra stessa lingua in attesa come noi nell’aeroporto di un Paese lontano, i colori intravisti di una bandiera, il suono di una musica familiare così nostra.

Accade anche qualcos’altro nell’italia malata. Accade ad esempio che, è vero, siamo sempre d’accordo con le critiche mosse da tutte le parti a come funziona o meglio non funziona il nostro Paese, con le critiche alla sua burocrazia, alla sua disorganiz­zazione, alla sua classe politica, così come alla sua società afflitta da mille difetti. L’ho detto all’inizio: la vocazione nazionalis­ta non ci appartiene. Ma se questo accade, accade pure che proprio in una situazione come quella di questi giorni, in cui ci sembra che il Paese sia con le spalle al muro, che tutto sembri confermare i giudizi sconfortan­ti che noi per primi siamo soliti dare di esso, accade che proprio in una situazione simile avvertiamo però, dentro di noi, nascere un pensiero diverso, un sentimento di orgoglio che non sospettava­mo di avere.

Non è tanto facile ammazzare l’italia, ci dice quel sentimento. Non è mai stato facile. Paragonata a tanti altri Paesi, l’italia è un piccolo lembo di terra, povera, senz’alcuna risorsa, ma bene o male da duemilacin­quecento anni quell’italia riesce a stare sul palcosceni­co della storia, da duemilacin­quecento anni il suo nome non è mai scomparso nel mondo. In virtù delle molteplici e multiformi qualità dei suoi abitanti, di qualcosa che è intima parte del suo «genio» (bisognerà pure essere liberi di usare parole importanti per dire cose importanti) essa ha sempre avuto qualcosa da dire o da dare. E continua ancora oggi. Ancora oggi siamo tra i primi, tra i primissimi in Europa, nel produrre ogni genere di macchine, di strumenti, di oggetti utili e necessari o sempliceme­nte belli, che esportiamo dappertutt­o. Così come negli studi, nella ricerca, nelle scienze, non sono poche le conoscenze che portano un nome italiano, e voci, immagini, scritture, musiche, le quali recano in sé anch’esse tutte qualcosa dell’italia, percorrono ancora oggi il mondo, e il più delle volte non proprio in modo insignific­ante.

Questo pensiamo mentre con non comune sincerità (ben venga!) il nostro governo c’informa ogni giorno del male che cresce e che c’insidia, e di come combatterl­o. Ormai sappiamo che il colpo che ne avremo sarà duro. Ma se la storia ci dice qualcosa, ci dice che resisterem­o. Che potremo anche cadere, forse. Ma che dopo di sicuro ci rialzeremo.

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