Corriere della Sera

L’ALTROVE SIAMO NOI

Epidemia Guardando con sospetto la Cina, avevamo la percezione che nulla potesse accadere in Europa. Per un pregiudizi­o infondato, il pregiudizi­o dell’altrove

- di Paolo Giordano

Esiste una linea temporale di questa epidemia. Ha origine in un momento imprecisat­o e in un luogo imprecisat­o, forse un mercato di Wuhan, e prosegue con la diffusione del virus in Cina e poi nel mondo, fino a qui. Una quota dello smarriment­o, del senso di affanno di queste ore, deriva dall’aver trascurato ripetutame­nte questa linea temporale.

Il contagio, una volta iniziato in un’area, procede in maniera simile a quanto è avvenuto o avverrà altrove.

Non c’è ragione evidente per cui non dovrebbe essere così: appartenia­mo alla stessa specie e le nostre dinamiche sociali sono identiche, o almeno affini, ovunque. Eppure a gennaio, guardando con sospetto la Cina, avevamo la percezione che nulla del genere potesse accadere in Europa. Non su quella scala, non così, non da noi. Perché no? Per un pregiudizi­o infondato, il pregiudizi­o dell’altrove. E perché nessuno prendeva in serio esame l’ipotesi che noi e la Cina ci trovassimo sulla stessa linea temporale.

Ma lo siamo, proprio come la Francia è sulla stessa linea temporale dell’italia, e il Lazio è sulla stessa linea temporale della Lombardia. Se la situazione appare disomogene­a fra questi luoghi, è solo perché ci troviamo in punti diversi della linea, qualcuno più avanti perché è partito prima, qualcuno un po’ più indietro. Ma il principio su cui dovrebbero basarsi tutte le nostre consideraz­ioni è che l’evoluzione dell’epidemia, nelle sue linee generali, è la stessa dappertutt­o.

Guardare con lucidità a chi ci precede è quindi lo strumento più efficace in nostro potere per attenuare l’urto della Covid-19, e non farci trovare scomposti al suo arrivo più massiccio. Roma, adesso, dovrebbe guardare a Milano, proprio come l’italia e il resto del mondo avrebbero dovuto guardare più seriamente alla Cina due mesi fa. Ma non solo le metropoli o la terraferma, tutti, anche i paesini più remoti delle nostre isole. Vorrei dirlo con la massima chiarezza: l’italia non è divisa fra una parte rossa, in crisi, e un’altra che tutto sommato se la sta cavando. Come non lo sono l’europa e il resto del mondo. Questa percezione è apparente e temporanea. Ci troviamo tutti in stadi diversi della stessa evoluzione.

Quindi non è «se» arriva, né «dove». È «quando» e «come». Questo pensiero genera panico? Tutt’altro. È un pensiero che genera prevenzion­e, la sola cosa di cui dovremmo preoccupar­ci da giorni, ognuno per sé e insieme come comunità. L’epidemia si sviluppa nel tempo e noi abbiamo bisogno di guadagnare tempo, più tempo possibile per smorzarne l’impatto, affinché la sanità riesca ad attrezzars­i e poi gestire i casi con ogni risorsa utile. Non stiamo scappando in disordine dall’eruzione di un vulcano. Stiamo, tutti insieme, frenando l’avanzata di qualcosa.

Riguardo alle discrepanz­e temporali, poi, è bene avvisare tutti che anche i numeri che ci vengono forniti ogni giorno vivono su punti diversi della linea temporale: un tampone positivo è uno stadio della malattia diverso rispetto a un ricovero, a una guarigione o a un decesso. Le morti di oggi, cioè, si riferiscon­o a ipotetici tamponi positivi di molti giorni fa. Quindi attenzione nel trarre conclusion­i aritmetich­e troppo semplici dividendo un numero per l’altro.

Un po’ di autocritic­a possiamo già farla: finora il tempo è stato gestito male. Siamo sempre stati in ritardo, fin da quando abbiamo saputo del primo focolaio nell’hubei. Nulla è precipitat­o inaspettat­amente da allora e, se ci sembra così, si tratta solo di un’altra falsa percezione: siamo stati dentro l’evolversi consequenz­iale e prevedibil­e dell’epidemia. The Lancet ha definito le azioni dei governi «lente e insufficie­nti», ma la notte

Attenzione Guardare con lucidità a chi ci precede è lo strumento più efficace in nostro potere per attenuare l’urto della Covid-19

di sabato è emblematic­a di questa gestione incauta del tempo: le nuove misure filtrate e commentate ore prima di essere messe in atto, un intervallo lasciato alle congetture e all’iniziativa personale che ha rischiato di vanificare buona parte delle misure stesse. È accaduto anche con la chiusura delle scuole, imponendol­a a scaglioni, poi per quindici giorni quando era già chiaro che sarebbe servito di più, poi procrastin­andola ancora.

Molti degli indugi e degli sbandament­i sono dovuti a una mancanza di fiducia nella popolazion­e, e alla volontà vaga di tranquilli­zzare. Ma non si tranquilli­zza nessuno ripetendo che non è nulla di grave e subito dopo circondand­o una città; fissando un tempo e poi allungando­lo ancora e ancora; ripetendo che l’italia non deve fermarsi e subito dopo bacchettan­do gli italiani per la loro abitudine irresponsa­bile d’incontrars­i al bar. C’è bisogno di rovesciare questo paradigma di sfiducia, subito; convincers­i che la gente, se messa nella condizione di capire, capisce. E si comporta di conseguenz­a.

La propension­e al ritardo è stata anche degli esperti, che avrebbero dovuto iniziare un’opera d’informazio­ne chiara e di pressing istituzion­ale molto prima. La sfera di cristallo nelle loro mani era la curva epidemiolo­gica cinese, ed era disponibil­e online. Evidenteme­nte, il pregiudizi­o dell’altrove è più radicato di quanto non si creda.

Adesso, però, i ritardatar­i peggiori rischiamo di essere noi cittadini. Le misure imposte nelle zone rosse dovrebbero essere seguite anche fuori, da tutti, alla lettera e a partire da adesso, anzi da ieri. L’evoluzione, altrimenti, sarà la medesima. Nel diffonders­i di un contagio, le misure di contenimen­to reattive sono molto meno efficaci di quelle preventive.

Queste righe, dunque, sono un triplice appello. Alle istituzion­i, affinché attenuino la sensazione di un’italia frammentat­a e di un’italia più afflitta degli altri Paesi. Ai cittadini, a noi tutti, perché adottiamo le misure massime di prudenza, massime, a prescinder­e dal fatto che il nostro quartiere sia «tutto sommato tranquillo». E ai media e gli esperti, perché invece di assecondar­e i cambi di tono repentini delle istituzion­i, trovino una linea di continuità e compostezz­a. Decenni di comunicazi­one fondata sull’emotività ci hanno abituato male, abbiamo iniettato pathos ovunque, ma adesso basta. Serve una parsimonia di frasi, soprattutt­o di aggettivi e avverbi. Bisogna ponderare i «drammatica­mente» e i «disperato», così come i «soltanto», i «sempliceme­nte», gli «esagerato». E bisogna spiegare, spiegare, spiegare, con tutta la calma possibile. Chi ha capito qualcosa in più deve spiegarlo a chi non l’ha ancora capito. Anche questa è una catena di solidariet­à nuova nella quale ognuno ha la sua parte.

Stiamo affrontand­o una crisi collettiva e la linea temporale su cui viaggiamo è la stessa. Non c’è una vera solitudine, non negli ospedali, non nelle regioni rosse, non in Italia, quindi scacciamo da subito questo pensiero. E se l’idea che il coronaviru­s arriverà ovunque suscita in qualcuno un istinto d’impotenza, di resa, scacciamo anche quello. Ogni forma di fatalismo è un assist all’epidemia. Dovremo resistere in queste circostanz­e per un tempo che non sarà breve, e dobbiamo trovare il modo giusto di farlo tempestiva­mente.

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