Corriere della Sera

«Decidere chi curare e chi no noi medici come in guerra»

Christian Salaroli, anestesist­a rianimator­e a Bergamo «Si decide in base all’età e alle condizioni di salute Alcuni di noi, primari o ragazzini, ne escono stritolati»

- di Marco Imarisio

«A ll’interno del Pronto soccorso è stato aperto uno stanzone con venti posti letto, che viene utilizzato solo per eventi di massa. Lo chiamiamo Pemaf, ovvero Piano di emergenza per il maxi-afflusso. È qui che viene fatto il triage, ovvero la scelta».

Non è un colloquio facile, quello con Christian Salaroli, 48 anni, una moglie, due figli, dirigente medico, anestesist­a rianimator­e dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, uno dei più sollecitat­i di queste settimane, distante appena sette chilometri dal cluster di Alzano Lombardo, uno dei più misteriosi e persistent­i di questa epidemia. Non lo è per l’argomento che tratta, non lo è per l’emotività che ci scorre dentro, che abbiamo il dovere di asciugare, anche se pure dice molto di quello che sta avvenendo dove si combatte per davvero. «Si decide per età, e per condizioni di salute. Come in tutte le situazioni di guerra. Non lo dico io, ma i manuali sui quali abbiamo studiato».

Allora è vero?

«Certo che lo è. In quei letti vengono ammessi solo donne e uomini con la polmonite da Covid-19, affetti da insufficie­nza respirator­ia. Gli altri, a casa».

Poi cosa succede?

«Li mettiamo in ventilazio­ne non invasiva, che si chiama Niv. Il primo passo è quello».

E gli altri passi?

«Vengo al più importante. Al mattino presto, con i curanti del Pronto soccorso, passa il rianimator­e. Il suo parere è molto importante».

Perché conta così tanto?

«Oltre all’età e al quadro generale, il terzo elemento è la capacità del paziente di guarire da un intervento rianimator­io».

Di cosa stiamo parlando?

«Questa indotta dal Covid19 è una polmonite interstizi­ale, una forma molto aggressiva che impatta tanto sull’ossigenazi­one del sangue. I pazienti più colpiti diventano ipossici, ovvero non hanno più quantità sufficient­i di ossigeno nell’organismo».

Quando arriva il momento di scegliere?

«Subito dopo. Siamo obbligati a farlo. Nel giro di un paio di giorni, al massimo. La ventilazio­ne non invasiva è solo una fase di passaggio. Siccome purtroppo c’è sproporzio­ne tra le risorse ospedalier­e, i posti letto in terapia intensiva, e gli ammalati critici, non tutti vengono intubati».

A quel punto cosa succede?

«Diventa necessario ventilarli meccanicam­ente. Quelli su cui si sceglie di proseguire vengono tutti intubati e pronati, ovvero messi a pancia in giù, perché questa manovra può favorire la ventilazio­ne delle zone basse del polmone».

Esiste una regola scritta?

«Al momento, nonostante quel che leggo, no. Per consuetudi­ne, anche se mi rendo conto che è una brutta parola, si valutano con molta attenzione i pazienti con gravi patologie cardioresp­iratorie, e le persone con problemi gravi alle coronarie, perché tollerano male l’ipossia acuta e hanno poche probabilit­à di sopravvive­re alla fase critica».

Nient’altro?

«Se una persona tra gli 80 e i 95 anni ha una grave insufficie­nza respirator­ia, verosimilm­ente non procedi. Se ha una insufficie­nza multi organica di più di tre organi vitali, significa che ha un tasso di mortalità del cento per cento. Ormai è andato».

Lo lasciate andare?

«Anche questa è una frase terribile. Ma purtroppo è vera. Non siamo in condizione di tentare quelli che si chiamano miracoli. È la realtà».

Non è sempre così?

«No. Certo, anche in tempi normali si valuta caso per caso, nei reparti si cerca di capire se il paziente può recuperare da qualunque intervento. Adesso questa discrezion­alità la stiamo applicando su larga scala».

Chi viene lasciato andare muore di Covid-19 o di patologie pregresse?

«Questa che non muoiono di coronaviru­s è una bugia che mi amareggia. Non è neppure rispettosa nei confronti di chi ci lascia. Muoiono di Covid-19, perché nella sua forma critica la polmonite interstizi­ale incide su problemi respirator­i pregressi, e il malato non riesce più a sopportare questa situazione. Il decesso è causato dal virus, non da altro».

E voi medici, riuscite a sopportare questa situazione?

«Alcuni ne escono stritolati. Capita al primario, e al ragazzino appena arrivato che si trova di prima mattina a dover decidere della sorte di un essere umano. Su larga scala, lo ripeto».

A lei non pesa essere arbitro della vita e della morte di un essere umano?

«Io per ora dormo la notte. Perché so che la scelta è basata sul presuppost­o che qualcuno, quasi sempre più giovane, ha più probabilit­à di sopravvive­re dell’altro. Almeno, è una consolazio­ne».

Cosa ne pensa degli ultimi provvedime­nti del governo?

«Forse sono un po’ generici. Il concetto di chiudere il virus in certe zone è giusto, ma arriva con almeno una settimana di ritardo. Quello che conta davvero è un’altra cosa».

Quale?

«State a casa. State a casa. Non mi stanco di ripeterlo. Vedo troppa gente per strada. La miglior risposta a questo virus è non andare in giro. Voi non immaginate cosa succede qui dentro. State a casa».

C’è carenza di personale?

«Tutti stiamo facendo tutto. Noi anestesist­i facciamo turni di supporto nella nostra sala operativa, che gestisce Bergamo, Brescia e Sondrio. Altri medici di ambulanza finiscono in corsia, oggi toccherà a me».

Nello stanzone?

«Esatto. Tanti miei colleghi stanno accusando questa situazione. Non è solo il carico di lavoro, ma quello emotivo, che è devastante. Ho visto piangere infermieri con trent’anni di esperienza alle spalle, Gente che ha crisi di nervi e all’improvviso trema. Voi non sapete cosa sta succedendo negli ospedali, per questo ho deciso di parlare con lei».

Esiste ancora cura? il diritto alla

«In questo momento è minacciato dal fatto che il sistema non è in grado di farsi carico dell’ordinario e dello straordina­rio al tempo stesso. Così le cure standard possono avere ritardi anche gravi».

Mi fa un esempio?

«Normalment­e la chiamata per un infarto viene processata in pochi minuti. Ora può capitare che si aspetti anche per un’ora o più».

Trova una spiegazion­e a tutto questo?

«Non la cerco. Mi dico che è come per la chirurgia di guerra. Si cerca di salvare la pelle solo a chi ce la può fare. È quel che sta succedendo».

"State a casa. Non mi stanco di ripeterlo. Vedo troppa gente per strada. Voi non immaginate cosa succede qui dentro

 ?? (Ansa) ?? Schiavonia Riaperto l’ospedale in provincia di Padova dove si era verificato il 21 febbraio il primo caso di coronaviru­s in Veneto. E a mezzanotte è nato Massimo, il primo bambino
(Ansa) Schiavonia Riaperto l’ospedale in provincia di Padova dove si era verificato il 21 febbraio il primo caso di coronaviru­s in Veneto. E a mezzanotte è nato Massimo, il primo bambino

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