Corriere della Sera

Tempo di miracoli

- di Alessandro D'avenia

«Imiracoli sono accaduti persino nei giorni più bui del XX secolo. Mia madre ha creato per me un giardino dell’eden in mezzo all’inferno. Mi costruì attorno un robusto muro d’amore e mi trasmise una sicurezza così grande che non trovai nulla di insolito nella nostra esistenza. Mi fece il regalo più prezioso di tutti: un’infanzia felice. Il fatto che vi sia riuscita entro i confini di un campo di concentram­ento nazista deve essere considerat­o un autentico miracolo». Le parole di Raphael Sommer, famoso musicista praghese, sono dedicate alla madre Alice, pianista sopraffina, morta all’età di 111 anni nel 2014. Avevo già scritto un altro pezzo per la rubrica ma, quando ieri sera, abitando a Milano, ho visto le scene di panico in conseguenz­a della chiusura di intere regioni e province a causa del virus, ho capito che dovevo raccontare il «miracolo» di cui parla Raphael. Era il 1942, racconta la bellissima biografia (Un giardino dell’eden in mezzo all’inferno), quando Alice Herz-sommer vide partire sua madre, 72enne, per un campo di concentram­ento. Non seppe mai più nulla di lei. Alice, pianista di fama internazio­nale, allora 38enne, si mise a vagare come una disperata per le strade di Praga, che con tutta la Cecoslovac­chia era dal 1939 sotto il controllo tedesco. Fu allora che, in preda alla paura e al dolore, sentì una voce interiore: «Esercitati nei 24 Studi, ti salveranno».

Possono esistere anche in tempi bui: siamo noi. Dobbiamo ascoltare la voce interiore che ci ricorda chi siamo e cosa possiamo fare per gli altri

Era una sfida assurda: i 24 studi di Chopin sono pezzi per pianoforte tra i più rivoluzion­ari e difficili, tanto che nessuno si era mai azzardato ad eseguirli tutti in un unico concerto. Quei brani divennero il credo di Alice, che cominciò a esercitars­i, 8-10 ore al giorno, per eseguirli alla perfezione. Le diedero una corazza, una disciplina e una forza di volontà straordina­rie: «Tutti i giorni per un anno mi dedicai a quel compito apparentem­ente insormonta­bile e memorizzai tutti e ventiquatt­ro gli Studi prima di essere deportata a Theresiens­tadt con mio marito Leopold e mio figlio Raphael, che allora aveva sei anni». I tre furono deportati nel ghetto-campo una mattina di luglio del 1943. I genitori continuaro­no a fare di tutto per proteggere il figlio dalla morte, ma ben presto Alice rimase sola: Leopold fu ammazzato. Lei continuò a lottare con quello che sapeva e poteva fare, così nel poco tempo libero dal lavoro in fabbrica a cui era obbligata, insegnava la musica a suo figlio, ai bambini e giovani del ghetto: «la musica rafforzò il mio ottimismo e salvò la vita a me e al mio bambino. Era il nostro nutrimento. E, infondendo gioia nelle nostre anime, ci preservò dall’odio, cancelland­o la paura e rammentand­oci le cose belle dell’esistenza anche negli angoli bui di questo mondo». Come se non bastasse Alice decise di eseguire decine di concerti per i prigionier­i, nei quali il programma, mai eseguito in tempi di pace, era un miracolo di bellezza: i 24 studi. Quella bellezza salvò lei stessa e molti altri: faceva ciò che sapeva e poteva meglio di come avesse mai fatto. Così vinse la paura, e diede a tanti un motivo per continuare a lottare e non cadere nella disperazio­ne in mezzo a condizioni tremende di fame, malattie, sporcizia e violenza. Il segreto del miracolo era nella bellezza e nell’umiltà a cui l’aveva educata la musica: «Chi sa accogliere in sé la dignità e la grandezza di un’opera di Bach o Beethoven, non rinuncia forse inevitabil­mente ai suoi obiettivi egoistici, di modo che le presunte cose importanti diventano relative?».

I miracoli, quindi, esistono, anche in tempi bui: siamo noi. Quello di Alice, con i necessari e dovuti distinguo, adesso è chiesto a ciascuno: fare meglio di prima quello che sappiamo e possiamo fare, per servire gli altri e dare loro speranza, come quelle ragazze che a Torino si sono offerte di fare la spesa per gli ultrasetta­ntenni del loro condominio. Non dobbiamo solo obbedire (e sarà già dura per un popolo che con le regole ha un rapporto difficile) alle voci «esteriori» che ci dicono cosa fare per non aumentare il contagio, ma ascoltare la più sottile voce interiore che ci ricorda chi siamo e che cosa possiamo fare per gli altri, ciascuno nel suo ambito. Per me significa connetterm­i alle 8 di questa mattina con i miei alunni, con i quali stiamo leggendo l’odissea integralme­nte. Ne leggeremo e approfondi­remo in videoconfe­renza il XVII capitolo, quello in cui, guarda caso, Ulisse comincia la riconquist­a di Itaca dagli usurpatori, con l’aiuto del figlio e di un servo. Faremo scuola come possiamo, anzi meglio, perché l’insegnamen­to a distanza aiuta a ripensare metodi e contenuti; faremo crescere i ragazzi non nonostante, ma grazie a questa situazione, facendoli sentire protetti, ancorati alla vita e sfidati, come Alice con il figlio e con tutti quelli che la ascoltaron­o. Dedicarci a chi abbiamo in casa e, come possiamo, agli altri, ci farà riscoprire i loro bisogni e le nostre priorità.

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