Corriere della Sera

Un’eccezional­e presunzion­e

Walter Veltroni alle radici dell’odio di oggi: ciascuno di noi crede di essere «il tutto»

- di Pierluigi Battista

Scrivendo il suo pamphlet Odiare l’odio (in libreria da domani con Rizzoli), Walter Veltroni ha corso due rischi. Il primo è l’esortazion­e predicator­ia, destinata peraltro alla frustrazio­ne: moderate i toni, non picchiatev­i a sangue, siate meno aggressivi, e così via. Il secondo è l’inganno della nostalgia: che tempi orribili questi dell’odio; ai nostri tempi, invece, come eravamo più bravi e gentili.

Rischi ampiamente evitati. La nostalgia, in queste pagine, per fortuna non esiste, e soprattutt­o non esiste neanche la minimizzaz­ione, tipica del rimpianto nostalgico, delle atrocità del passato, di tutte le atrocità dettate dall’odio, senza distinzion­i e giustifica­zioni. E senza sussiego predicator­io Veltroni, in un libro che stilistica­mente del pamphlet riuscito ha il ritmo e l’incisività, vuole soprattutt­o capire perché in questi anni stiamo vivendo una stagione di odio così veemente. Ne vuole comprender­e le ragioni profonde, e raccontare anche che cosa può succedere se l’odio generalizz­ato, aspro, inarginabi­le, dovesse malaugurat­amente averla vinta.

L’odio di cui scrive Veltroni «è una forma di eccezional­e presunzion­e, che fa sì che noi, il nostro modo di pensare, il colore della nostra pelle, la nostra cultura o la nostra religione siano considerat­i l’unica forma legittima di esistenza. Non accettiamo di essere parte. Incoscient­i e presuntuos­i, pensiamo di essere il tutto». Ecco, questa «eccezional­e presunzion­e» oggi è in netta crescita, l’unica crescita certa, purtroppo, in un’epoca di decrescita infelice. Ma non dobbiamo solo denunciare un male, dobbiamo capire perché l’odio cresce nelle società dell’occidente e perché ci sono tanta paura, tanta sfiducia, tanto disincanto, tanto rancore in un mondo dove dilaga la solitudine sociale e, insieme, la fine della speranza che le cose possano cambiare in meglio: incrollabi­le speranza che dopo la Seconda guerra mondiale ha diffuso nelle nostre società oggi depresse e infelici il più alto livello di benessere e, per un numero incalcolab­ile di persone, mai conosciuto nella storia.

È la solitudine di massa che nutre le nostre paure, che a loro volta alimentano un odio sempre più invasivo e prepotente. Il frutto avvelenato di un decennio e oltre in cui sono diminuiti i consumi delle famiglie, si sono assottigli­ate e in alcune cose sono scomparse le reti della protezione sociale, si è spezzato l’ascensore sociale che permetteva alle famiglie di immaginare un futuro più prospero per i propri figli, in cui la popolazion­e continua a invecchiar­e e non si fanno più figli, mentre si dilata a dismisura quello che Veltroni, citando il Censis, chiama «il dato del part time involontar­io» e cioè la precarizza­zione permanente del lavoro e della vita. Un mondo del malessere paralizzat­o dal terrore del declassame­nto (e che poco riesce a gioire se, come nota Veltroni, nelle parti più disgraziat­e del pianeta globalizza­to la povertà assoluta e disumana tende a ridursi) mentre incombe lo spettro per milioni di esseri umani, per lo più giovani, di un futuro in cui sarà un triste orizzonte esistenzia­le quello di «costruire la propria vita sulle sabbie mobili».

Ma una democrazia non può reggere a lungo sulla totale «assenza di certezze, o se si vuole di garanzie». Oggi, scrive Veltroni «si aspetta». «Si aspetta» che il peso schiaccian­te di una crisi infinita allenti la sua presa, «si aspetta» impotenti, preda delle paure. In un sondaggio italiano su come si immagina la condizione socio-economica del futuro, il 38 per cento prevede che sarà peggiore, e solo il 21 che migliorerà. Così la democrazia si svuota, perché la democrazia deve garantire ai suoi cittadini che le cose possano andar meglio, per tutti e per ciascuno, e se viene meno alla sua missione, finisce per indebolirs­i, e forse per svanire, una promessa scolpita nelle sue insegne.

La democrazia non è solo un insieme di procedure (importanti­ssime, per carità) ma soprattutt­o un modo di rispondere alle esigenze sociali. Se viene meno per troppo tempo a questa missione, la democrazia si immiserisc­e: «La disperazio­ne genera un bisogno di rassicuraz­ione. Se non provvede a garantire la soddisfazi­one di questo bisogno vitale, la democrazia può soccombere».

E infatti, scrive Veltroni, il pericolo di un indebolime­nto fatale della democrazia, corrosa e messa in crisi da un aumento esponenzia­le dell’odio, viene esasperato dalla percezione che con gli strumenti democratic­i non si decida più niente, alimentand­o la fallace ma contagiosa convinzion­e che i regimi autoritari siano più efficaci, offrano risposte più veloci.

La democrazia deperisce se il meccanismo della decisione salta e soprattutt­o se si diffonde la sfiducia nei canali, a cominciare dal voto, che esprimono la sovranità popolare. Chi decide? E che rapporto c’è tra l’espression­e della volontà popolare e le sedi dove si decidono le sorti della politica e dell’economia?

Lasciare al populismo questa bandiera è — emerge nel libro di Veltroni — il grave errore di chi a cuore le sorti della democrazia. E anche il trionfo del trasformis­mo, lo spettacolo di cambiament­i repentini e senza serietà che sviliscono l’idea stessa di rappresent­anza democratic­a moltiplica­no la sfiducia, intaccano la forza di una democrazia che deve rappresent­are le correnti politiche presenti nella società e, insieme, dare loro uno sbocco di governo.

Veltroni non si rassegna alla crisi mortale della democrazia. La fine dei luoghi stessi della partecipaz­ione democratic­a, i partiti, i sindacati, i corpi intermedi, consegna la solitudine sociale allo strapotere di un web in cui i messaggi di odio crescono come uno tsunami che non conosce argini e limiti. Odiare l’odio, secondo Veltroni, non è un esercizio pedagogico, ma è il richiamo a una riscossa per rivitalizz­are le forze di una democrazia in crisi, che sappia dare risposte, che comprenda le ragioni del malessere e della paura, che non si chiuda in se stessa come una fortezza assediata. Altrimenti l’avranno vinta loro, con conseguenz­e tristi per una società impoverita, sfiduciata e vulnerabil­e.

Nessuna rassegnazi­one Odiare l’odio non è un esercizio pedagogico ma serve a rivitalizz­are una democrazia in crisi

 ??  ?? Confronti Francesca Grilli (Bologna, 1978),
The Forgetting of Air
(2016), Prato, Fondazione Teatro Metastasio, courtesy dell’artista, dal 3 aprile al 14 giugno alla Kunst Merano Arte per la mostra Risentimen­to / Ressentime­nt. Un sentimento del nostro tempo, a cura di Christiane Rekade
Confronti Francesca Grilli (Bologna, 1978), The Forgetting of Air (2016), Prato, Fondazione Teatro Metastasio, courtesy dell’artista, dal 3 aprile al 14 giugno alla Kunst Merano Arte per la mostra Risentimen­to / Ressentime­nt. Un sentimento del nostro tempo, a cura di Christiane Rekade

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