Corriere della Sera

UNA LINGUA «FREDDA ET SECCA»? NO

- di Giuseppe Antonelli

Appena si alza il sipario prende la parola Pietro Bembo, l’umanista veneziano che additò ai letterati il modello di Petrarca e Boccaccio, e domanda al dotto Lazzaro Bonamico se davvero è stato chiamato a insegnare latino e greco all’università di Padova. Quando quello conferma, gli chiede una cosa che a noi sembrerebb­e indiscreta anche in privato: quanto prende di stipendio. «Che provisione è la vostra?», «Trecento scudi d’oro», «Messer Lazaro, io me n’allegro con voi».

Tra i tanti dialoghi che nel Cinquecent­o contribuir­ono alla cosiddetta questione della lingua, il Dialogo delle lingue del padovano Sperone Speroni (ambientato nel 1530 e pubblicato nel 1542) è uno dei più briosi. Al punto che — nota Carlo Ossola, curatore della preziosa edizione uscita per Tallone — sembra rappresent­ato su un palcosceni­co. Una sorta di talk show, se volessimo inquadrare quest’arioso dibattito rinascimen­tale nei confini un po’ angusti dell’immaginari­o odierno. Perché nel confronto tra le posizioni degli interlocut­ori — schierati chi per le lingue classiche, chi per il toscano letterario, chi per l’uso della lingua materna — non ce n’è una che venga nettamente privilegia­ta. E questo conferisce ai personaggi storici in scena (oltre ai due già citati, anche il grecista Giovanni Lascaris e il filosofo Pietro Pomponazzi detto «il Peretto») una certa tridimensi­onalità. Ne viene fuori una disputa raffinata che, grazie anche alla presenza di altri due personaggi fittizi: il Cortegiano e lo Scolaro, assume a tratti i toni teatrali della commedia, con un colorito dialettico — osserva ancora Ossola — continuame­nte acceso da «vivaci comparazio­ni, esempi, paradossi».

Così è nella parte che più aveva colpito un lettore come Leopardi: quella in cui si discute del rapporto tra lingua e pensiero e della presunta superiorit­à delle lingue classiche. All’idea del Peretto, per cui si può tranquilla­mente studiare la filosofia traducendo gli autori greci e latini in «Italiani», Lascaris reagisce con sarcasmo: tradurre Aristotele «di lingua greca in lombarda» sarebbe come trapiantar­e «un narancio o una oliva da un ben colto horticello» in un bosco di rovi. Similmente, al Bembo che parla di una lingua toscana «rifiorita», tanto che ci si potrà aspettare a breve «più d’un Petrarca, & più d’un Boccaccio», Lazzaro replica che la lingua toscana è «per rispetto alla lingua latina, quale la feccia al vino». L’unica sarebbe tornare tutti a parlare latino. «La qual cosa — obietta il Cortegiano — non si può fare, salvo se non si fabricasse una nuova città, la quale habitasser­o i litterati». Più che una città ideale, un ghetto per intellettu­ali: tanto più che, insiste confessand­o la sua «ignorantia», a volte nomi e verbi latini gli «suonano non so che bergamasco nel capo».

Da una parte la nostalgia per il passato, dall’altra l’esigenza di una nuova cultura e la presa d’atto di una nuova realtà sociale: le lingue come terreno di scontro tra visioni del mondo. Scontro nel quale lo Speroni aveva in quegli anni già preso posizione, schierando­si per il volgare come unica lingua della sua Accademia degli Infiammati. Persino Bembo, in effetti, dopo aver convenuto che certo sarebbe bello se si parlasse ancora in latino, prende atto che le cose stanno diversamen­te e incalza: «Che si deve fare? vogliam morir di dolore? restare mutoli?». Anche se poi si scusa per aver detto, volendo difendere la «lingua novella», quelle parole «contra la lingua latina». Al che, il Cortegiano affonda: «Parmi, Monsignor, che così temiate di dir male della lingua latina, come se ella fosse la lingua del vostro Santo da Padova». Dalla lingua del vanto a quella del santo. Reliquia adorata da alcuni, ma «fredda et secca»: morta, appunto.

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