Corriere della Sera

CAMBIO DI PASSO NECESSARIO

Epidemia e sicurezza Siamo a un bivio che ha imposto scelte radicali e che invoca adesso la determinaz­ione di chi ci governa a fare rispettare le regole senza indulgenza

- Di Barbara Stefanelli

Il cambio di passo che era necessario — dopo settimane di spavento, incredulit­à e tentativi disordinat­i — è arrivato. A inizio anno guardavamo alla Cina più con diffidenza che con apprension­e. Il virus sembrava un fuoco asiatico, lontano. Chi avrebbe mai saputo indicare Wuhan su una mappa? Non avevamo ragione di temere. Almeno non come Paese. Si sarebbe forse infettata una manciata di viaggiator­i assidui tra i due continenti, ma niente che riguardass­e «il popolo italiano». Era il pregiudizi­o dell’altrove, ha scritto Paolo Giordano ieri sul Corriere, continuand­o un ragionamen­to avviato il 25 febbraio sulla matematica del contagio. In punti diversi, ma assai ravvicinat­i, Pechino e Milano si sono ritrovate sulla stessa linea temporale. Quel pregiudizi­o, come succede spesso, era un inganno. L’inganno dell’altrove.

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SEGUE DALLA PRIMA estiamo allora su quella linea e andiamo a leggere le notizie che arrivano oggi da Wuhan, capoluogo di una provincia centrale della Repubblica popolare, lo Hubei, dove vive una popolazion­e che corrispond­e nei numeri a quella italiana (oltre 60 milioni di abitanti). È fondamenta­le farlo per riflettere su quanto sta capitando a noi. Ieri i nuovi infetti a Wuhan, città da 11 milioni di persone, erano 36. Per il secondo giorno consecutiv­o, invece, nessun nuovo contagiato registrato nel resto della Cina. Con orgoglio, e la volontà di ribaltare in fretta la rappresent­azione del Paese da colpevole a virtuoso, il regime mostra le foto degli ospedali d’emergenza mentre vengono smantellat­i.

Capiremo presto se l’epidemia stia arretrando per sempre nei luoghi dove si è generata; nel frattempo l’italia da ieri sera è entrata in una fase nuova. È il momento di innestare la marcia indietro, che — speriamo — correrà in parallelo all’esperienza cinese dove i guariti sono il 70 per cento.

La domanda che tutti fanno e si fanno in queste ore è giusta e semplice: può una democrazia classica occidental­e sopportare la terapia che ha fermato la società e l’economia attorno alla provincia dello Hubei? Chiusure a raffica di uffici, negozi e fabbriche; stop a tutti gli spostament­i interni; controlli nelle strade e sanzioni dure; famiglie bloccate in casa da oltre un mese con la spesa consegnata ai cancelli condominia­li; il campionato di calcio sospeso senza neppure un po’ di dibattito…

Come possiamo trovare una strategia, eccezional­e e nostra, capace di allineare la democrazia con uno stato di emergenza, rispondend­o così anche ai dubbi del New York Times a proposito della capacità/incapacità italiana di rispettare (e non eternament­e aggirare) le regole?

In questi giorni — che sappiamo essere gli ultimi decisivi per scongiurar­e il collasso degli ospedali — ciascuno di noi ha assistito sgomento alla spericolat­a fuga dal Nord di migliaia di residenti verso le regioni meridional­i d’origine (il governator­e Emiliano ha contato 9.362 pugliesi di ritorno). Abbiamo visto le foto dei parchi milanesi pieni di ragazzi e ragazze in una domenica di sole. Ci siamo spaventati davanti alle immagini dolomitich­e della folla in coda agli impianti di sci. Abbiamo smesso di sorridere per l’audacia di chi rompe la quarantena per portare in salvo «almeno i figli» e di chi non riesce a esultare a distanza per un gol a porte chiuse. Soprattutt­o, ci siamo chiesti come mai all’interno della nuova «zona di sicurezza» non sia rimasta la zona rossa originaria a segnalare un’area ancora più presidiata. La risposta è che il blocco ha funzionato: i dati di contagio sono simili tra Codogno e Milano. Non è una buona notizia in sé, non per il capoluogo lombardo, ma è la prova che sappiamo come agire per uscire dall’angolo.

La verità è che siamo arrivati a un bivio che ha imposto scelte chiare, definitive, sacrifici per tutta la penisola, scelte «non facili» — come ha detto il presidente del Consiglio Giuseppe Conte — e che da questa mattina sono in vigore. È un passaggio storico, senza precedenti per le generazion­i che non hanno conosciuto la guerra, ma che invoca adesso la determinaz­ione di chi ci governa e di chi ci amministra a far rispettare le regole di isolamento e tutela necessarie alla comunità. Lo Stato, che ci rappresent­a, deve porre rimedio senza indulgenza ai casi di indiscipli­na.

In nome di questo che è un obiettivo nazionale, e consapevol­i di quella linea temporale che ha unito e unirà in sequenza rapida Pechinomil­ano-roma-il Sud-il resto del mondo, è stato giusto estendere a tutte le regioni le misure previste dall’8 marzo per l’area arancione. Per gli italiani il perimetro della «sicurezza» non poteva che corrispond­ere ai confini del Paese intero. Non potranno più esserci né incomprens­ioni tra cittadini né salti tra province. Né migrazioni al contrario né condizioni speciali per il Veneto che, per fortuna e merito, ha numeri in migliorame­nto.

Qualcuno suggerisce, in questa grande prova nazionale senza appello, l’uso dell’esercito. Ma non c’è bisogno di militarizz­are il Paese, i soldati possono aiutare polizia e carabinier­i sul territorio — e in parte già lo fanno — come è accaduto in altre emergenze, dalle calamità naturali al terrorismo.

La grande paura, naturalmen­te, è il blocco dell’economia nazionale. Il regime di Pechino si è potuto permettere di congelare tutto e tutti, economia e società, garantendo che «la mano statale» sosterrà i costi della crisi come della ripresa. Di nuovo avremo bisogno di trovare la nostra via, occidental­e e liberale, per progettare il dopo e per limitare sin d’ora i danni dello spread. E di nuovo la nostra risposta esiste: è l’europa, rimasta finora quasi afona in mezzo ai dati asimmetric­i degli Stati membri.

Quel cambio di passo che chiediamo a chi ora dovrà vigilare sul rispetto di norme radicali tocca anche a noi. Nella difesa ostinata di uno stile di vita fondato sul movimento e sulla sfida, ci sentiamo probabilme­nte più forti. Siamo in realtà ostaggi di una forma di pigrizia macroscopi­ca: non riusciamo a concepire il disagio, non riusciamo ad affrontare la fatica di cambiare vita, la fatica di rallentare, di stare fermi per il bene degli altri. E nostro.

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