CAMBIO DI PASSO NECESSARIO
Epidemia e sicurezza Siamo a un bivio che ha imposto scelte radicali e che invoca adesso la determinazione di chi ci governa a fare rispettare le regole senza indulgenza
Il cambio di passo che era necessario — dopo settimane di spavento, incredulità e tentativi disordinati — è arrivato. A inizio anno guardavamo alla Cina più con diffidenza che con apprensione. Il virus sembrava un fuoco asiatico, lontano. Chi avrebbe mai saputo indicare Wuhan su una mappa? Non avevamo ragione di temere. Almeno non come Paese. Si sarebbe forse infettata una manciata di viaggiatori assidui tra i due continenti, ma niente che riguardasse «il popolo italiano». Era il pregiudizio dell’altrove, ha scritto Paolo Giordano ieri sul Corriere, continuando un ragionamento avviato il 25 febbraio sulla matematica del contagio. In punti diversi, ma assai ravvicinati, Pechino e Milano si sono ritrovate sulla stessa linea temporale. Quel pregiudizio, come succede spesso, era un inganno. L’inganno dell’altrove.
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SEGUE DALLA PRIMA estiamo allora su quella linea e andiamo a leggere le notizie che arrivano oggi da Wuhan, capoluogo di una provincia centrale della Repubblica popolare, lo Hubei, dove vive una popolazione che corrisponde nei numeri a quella italiana (oltre 60 milioni di abitanti). È fondamentale farlo per riflettere su quanto sta capitando a noi. Ieri i nuovi infetti a Wuhan, città da 11 milioni di persone, erano 36. Per il secondo giorno consecutivo, invece, nessun nuovo contagiato registrato nel resto della Cina. Con orgoglio, e la volontà di ribaltare in fretta la rappresentazione del Paese da colpevole a virtuoso, il regime mostra le foto degli ospedali d’emergenza mentre vengono smantellati.
Capiremo presto se l’epidemia stia arretrando per sempre nei luoghi dove si è generata; nel frattempo l’italia da ieri sera è entrata in una fase nuova. È il momento di innestare la marcia indietro, che — speriamo — correrà in parallelo all’esperienza cinese dove i guariti sono il 70 per cento.
La domanda che tutti fanno e si fanno in queste ore è giusta e semplice: può una democrazia classica occidentale sopportare la terapia che ha fermato la società e l’economia attorno alla provincia dello Hubei? Chiusure a raffica di uffici, negozi e fabbriche; stop a tutti gli spostamenti interni; controlli nelle strade e sanzioni dure; famiglie bloccate in casa da oltre un mese con la spesa consegnata ai cancelli condominiali; il campionato di calcio sospeso senza neppure un po’ di dibattito…
Come possiamo trovare una strategia, eccezionale e nostra, capace di allineare la democrazia con uno stato di emergenza, rispondendo così anche ai dubbi del New York Times a proposito della capacità/incapacità italiana di rispettare (e non eternamente aggirare) le regole?
In questi giorni — che sappiamo essere gli ultimi decisivi per scongiurare il collasso degli ospedali — ciascuno di noi ha assistito sgomento alla spericolata fuga dal Nord di migliaia di residenti verso le regioni meridionali d’origine (il governatore Emiliano ha contato 9.362 pugliesi di ritorno). Abbiamo visto le foto dei parchi milanesi pieni di ragazzi e ragazze in una domenica di sole. Ci siamo spaventati davanti alle immagini dolomitiche della folla in coda agli impianti di sci. Abbiamo smesso di sorridere per l’audacia di chi rompe la quarantena per portare in salvo «almeno i figli» e di chi non riesce a esultare a distanza per un gol a porte chiuse. Soprattutto, ci siamo chiesti come mai all’interno della nuova «zona di sicurezza» non sia rimasta la zona rossa originaria a segnalare un’area ancora più presidiata. La risposta è che il blocco ha funzionato: i dati di contagio sono simili tra Codogno e Milano. Non è una buona notizia in sé, non per il capoluogo lombardo, ma è la prova che sappiamo come agire per uscire dall’angolo.
La verità è che siamo arrivati a un bivio che ha imposto scelte chiare, definitive, sacrifici per tutta la penisola, scelte «non facili» — come ha detto il presidente del Consiglio Giuseppe Conte — e che da questa mattina sono in vigore. È un passaggio storico, senza precedenti per le generazioni che non hanno conosciuto la guerra, ma che invoca adesso la determinazione di chi ci governa e di chi ci amministra a far rispettare le regole di isolamento e tutela necessarie alla comunità. Lo Stato, che ci rappresenta, deve porre rimedio senza indulgenza ai casi di indisciplina.
In nome di questo che è un obiettivo nazionale, e consapevoli di quella linea temporale che ha unito e unirà in sequenza rapida Pechinomilano-roma-il Sud-il resto del mondo, è stato giusto estendere a tutte le regioni le misure previste dall’8 marzo per l’area arancione. Per gli italiani il perimetro della «sicurezza» non poteva che corrispondere ai confini del Paese intero. Non potranno più esserci né incomprensioni tra cittadini né salti tra province. Né migrazioni al contrario né condizioni speciali per il Veneto che, per fortuna e merito, ha numeri in miglioramento.
Qualcuno suggerisce, in questa grande prova nazionale senza appello, l’uso dell’esercito. Ma non c’è bisogno di militarizzare il Paese, i soldati possono aiutare polizia e carabinieri sul territorio — e in parte già lo fanno — come è accaduto in altre emergenze, dalle calamità naturali al terrorismo.
La grande paura, naturalmente, è il blocco dell’economia nazionale. Il regime di Pechino si è potuto permettere di congelare tutto e tutti, economia e società, garantendo che «la mano statale» sosterrà i costi della crisi come della ripresa. Di nuovo avremo bisogno di trovare la nostra via, occidentale e liberale, per progettare il dopo e per limitare sin d’ora i danni dello spread. E di nuovo la nostra risposta esiste: è l’europa, rimasta finora quasi afona in mezzo ai dati asimmetrici degli Stati membri.
Quel cambio di passo che chiediamo a chi ora dovrà vigilare sul rispetto di norme radicali tocca anche a noi. Nella difesa ostinata di uno stile di vita fondato sul movimento e sulla sfida, ci sentiamo probabilmente più forti. Siamo in realtà ostaggi di una forma di pigrizia macroscopica: non riusciamo a concepire il disagio, non riusciamo ad affrontare la fatica di cambiare vita, la fatica di rallentare, di stare fermi per il bene degli altri. E nostro.