Impariamo la lezione dei nostri padri
«Ricostruiremo le nostre vite e non ci sarà gioia più grande». Nelle lettere del passato lo spirito di resistenza degli italiani.
«Presto ritorneremo e potrò riprendere il mio lavoro. Tanto ci sarà da lavorare in Italia, ma non ci sgomenta. Siamo giovani, l’entusiasmo non ci manca. Lavoreremo e ricostruiremo la nostra vita e non ci sarà gioia più grande».
Così scriveva al padre, nella primavera del 1945, Enrica Filippini Lera, giovane donna appena liberata dal lager nazista. L’italia si stava rialzando da una tragedia che non ha metri di paragone con l’attualità. Mezzo milione di compatrioti avevano perso la vita in battaglia, nelle rappresaglie tedesche, sotto i bombardamenti alleati, nella guerra civile, e appunto nei campi di prigionia in Germania. Il Paese era a pezzi. I nostri padri lo ricostruirono in pochi anni, e ne fecero una delle grandi potenze mondiali. La storia non si ripete mai due volte. L’emergenza di questi giorni ci pare terribile, ma — giova ripeterlo — è lontana dall’esperienza di una guerra o di un’epidemia come quella di febbre spagnola. Se sapremo rispettare i divieti e il buon senso, supereremo la fase critica e ci metteremo al lavoro per ripartire. Proprio per questo, la Ricostruzione seguita alla Seconda guerra mondiale è il periodo da cui possiamo trarre esempi ed energia.
La crisi da coronavirus non arriva in un Paese dinamico e in crescita. Questo discorso può valere per Milano; non per il resto d’italia. La crisi da coronavirus è la legnata finale di un ciclo negativo cominciato quasi trent’anni fa e acuitosi con la tempesta finanziaria internazionale del 2008, da cui l’italia non si è mai davvero ripresa. Per una seconda Ricostruzione occorrono grandi sforzi. Misure — oggi sanitarie, domani economiche — straordinarie. Soprattutto, occorre recuperare uno spirito. Per questo i racconti dei nonni sono molto utili ai nipoti; i quali pensano di essere la prima generazione a dover soffrire, e non sanno che i nostri vecchi hanno dovuto rinunciare a ben altro che a un apericena.
Non è vero che gli italiani hanno sempre e solo badato ad arrangiarsi, senza lungimiranza né resistenza, incapaci di gettare uno sguardo oltre alle difficoltà del presente. Ognuno dei grandi momenti della storia nazionale può essere di ispirazione. È il momento di rileggere la lettera che Vittorio Emanuele II, il re che ha fatto l’italia, oggi quasi del tutto assente dalla memoria collettiva, scrisse al segretario alla vigilia della seconda guerra d’indipendenza: «Io parto domattina per la campagna con l’esercito. Procurerò di sbarrare la via di Torino, se non ci riesco e il nemico avanza, ponete al sicuro la mia famiglia e ascoltate bene questo. Vi sono al Museo delle armi quattro bandiere austriache prese dalle nostre truppe nella campagna del 1848 e là deposte da mio padre. Questi sono i trofei della sua gloria. Abbandonate tutto, al bisogno: valori, gioie, archivi, collezioni, tutto ciò che contiene questo palazzo, ma mettete in salvo quelle bandiere. Che io le ritrovi intatte e salve come i miei figli. Ecco tutto quello che vi chiedo; il resto non conta». Cosa intendeva dire il re? Più o meno questo: noi italiani non ci arrenderemo mai; anche se dovessimo essere ancora sconfitti dal più potente esercito d’europa, continueremo a combattere per conquistarci una patria.
Aveva scelto di essere italiano Nazario Sauro, nato suddito austriaco a Capodistria, disertore per amore della sua vera nazione, catturato e condannato a morte. La Grande Guerra è piena di testimonianze da riscoprire: i fanti scrivevano molto. Ma restano insuperate le parole che Sauro lasciò al primogenito prima di affrontare il plotone d’esecuzione: «Caro Nino, tu forse comprendi, o altrimenti comprenderai fra qualche anno, quale era il mio dovere d’italiano. Diedi a te, a Libero, ad Anita, a Italo, ad Albania nomi di libertà, ma non solo sulla carta; questi nomi avevano bisogno del suggello, e il mio giuramento l’ho mantenuto. Io muoio col solo dispiacere di privare i miei carissimi e buonissimi figli del loro amato padre, ma vi viene in aiuto la patria che è il plurale di padre, e su questa patria, giura o Nino, e farai giurare ai tuoi fratelli quando avranno l’età per ben comprendere, che sarete sempre, ovunque e prima di tutto italiani. I miei baci e la mia benedizione. Papà». Retorica? Le parole sono retoriche quando vengono contraddette dai fatti; non quando i fatti le confermano. E se le circostanze non sono paragonabili, è lo spirito di resistenza — come quello che si vede oggi negli ospedali — che va salvato e trasmesso. Lo spirito che animava il capitano Giuseppe De Toni, uno degli 800 mila soldati condotti prigionieri in Germania dopo l’8 settembre, che così spiega al fratello perché preferisce restare nel lager piuttosto che combattere per Hitler: «Anche noi abbiamo i nostri morti e questa è forse peggio che una prima linea di combattimento. Anche pochi, saremo sempre in numero sufficiente a dimostrare che vi sono degli italiani pronti a sacrificare tutto per un’italia rispettata, onorata. Torneremo, e presto, ma torneremo a testa alta per il nostro dovere compiuto fino in fondo. E chi non potrà tornare non sarà caduto per nulla». Tornò dalla prigionia Giuseppe De Toni. Ancora oggi a Brescia i nipoti custodiscono la sua memoria.
Sono battaglie che non si possono perdere; questo significa che le vinceremo.