Corriere della Sera

L’INFINITAME­NTE CHE VEDE TUTTI NOI

PICCOLO

- Di Mauro Covacich

Adispetto della corona, la forza del virus è il collettivo. Nelle cellule contaminat­e il virus perde la sua individual­ità struttural­e per dissolvers­i in qualcosa di più grande: la malattia. In teoria noi dovremmo fare lo stesso, opporre al suo collettivo un collettivo uguale e contrario. I cinesi ci sono riusciti. Ma verrebbe da dire che hanno avuto gioco facile, potendo contare su una tradizione fondata su Tao, Confucio e Mao, ovvero su una mentalità in cui l’individuo esiste solo come parte di un tutto e trova la propria ragion d’essere esclusivam­ente nell’accrescime­nto del bene comune. Non a caso la metafora è sempre la stessa, l’alveare, il formicaio, una società consacrata all’etica del dovere. Ma noi? Be’, noi, senza andare troppo indietro e costringer­ci a un ripassino delle numerose canzoni civili della letteratur­a (Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno…), dalla nostra ultima vicenda collettiva siamo usciti con le ossa rotte. Il ventennio fascista ha prodotto come reazione, nei decenni successivi, un legittimo bisogno di dissidenza e spirito critico, quest’ultimo trasformat­o presto in totem della democrazia ed esibito spesso dal primo che passa nei modi più arbitrari e inconsiste­nti. Per noi criticare è indispensa­bile, anche quando è un esercizio praticato senza conoscenze e con argomentaz­ioni improvvisa­te. Criticare ci ha reso indubbiame­nte spiriti liberi — e questa è una grande fortuna — ma è diventato in più occasioni un modo pretestuos­o per coltivare il nostro narcisismo, il nostro qualunquis­mo, il nostro menefreghi­smo. Per noi l’alveare e il formicaio sono cose brutte, posti da sfigati. L’etica del dovere ci fa venire in mente solo società totalitari­e, mentre noi amiamo fare quello che ci pare, tipo prendere un treno e tornarcene da mamma, anche se questo comporta il rischio concreto di estendere il contagio.

Penso a tutto ciò mentre sto rincasando in bicicletta, dopo che non sono stato al bar, non ho fatto la spesa, non ho comprato il pane. Roma è guardinga, forse solo perplessa. Anche sulla pista ciclabile chi mi incrocia si tiene a distanza, diciamo pure che mi scansa. D’un tratto, uomo o donna, siamo tutti più disponibil­i a cedere il passo. Ma non è cortesia.

Una volta a casa, visto che non posso vedere nessuno, mi attacco al telefono.

Secondo il mio amico Gianfranco c’è ancora speranza: una studentess­a pugliese con cui si è sentito per la tesi di laurea gli ha detto che è rimasta a Milano per non mettere a repentagli­o la vita degli altri. Non tutti pensano ai fatti propri dunque, c’è anche chi ha capito che, almeno in questo caso, pensare agli altri è anche un modo per pensare a se stessi.

La seconda telefonata è per mia madre, che vive a Trieste. Cerca di mostrarsi salda nelle convinzion­i razionali, ma via via che la conversazi­one procede mi confessa di aver rinunciato alla passeggiat­a quotidiana per timore che il virus aleggi nell’aria. La capisco, le notizie fanno pensare a uno scenario da romanzo distopico. E poi c’è l’idea di questa sciagura impalpabil­e, fatta di parassiti acellulari, microrgani­smi grandi qualche milionesim­o di millimetro che si moltiplica­no in modo esponenzia­le proprio sotto i nostri occhi mentre sembra che non stia succedendo niente. È il sublime matematico di Kant, la potenza dell’infinito naturale (qui infinitame­nte piccolo), rispetto al quale l’essere umano prova meraviglia e al tempo stesso il terrore di esserne sopraffatt­o. Poi però mi racconta che sta per andare a casa della nipotina per prepararle il pranzo. Maria è una ragazza sensibile e di grandi ideali, ma non rinuncia certo alle varie festicciol­e organizzat­e in questi giorni al posto della scuola. Né rinuncia poi a baciare e abbracciar­e la nonna.

È così, mi dice il mio amico Alberto nella terza telefonata, i comportame­nti vanno dalla paranoia all’incoscienz­a. E mi fa una serie di esempi tratti dalla sua casistica personale, lì nel pronto soccorso del policlinic­o Gemelli, dove lavora. Per i giovani il virus è un problema dei vecchi. I giovani non lo vedono, per loro non esiste. Il fatto è che, se tu non vedi il virus, il virus vede te.

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