Montalbano, la serialità d’autore di un marchio consolidato
Salvo Montalbano, l’eterna e monacale fidanzata Livia, Vigata, la vecchia Fiat Tipo, Catarella, gli arancini, il cattivo di turno che non la farà franca… Mai come in questo momento, il mondo atemporale di Camilleri aiuta non poco ad allentare la tensione che ci stringe.
Accettato il paradosso iniziale (nei piccoli mondi antichi di Don Matteo o di Montalbano la media degli omicidi è di gran lunga superiore alla media nazionale), il resto è pura narrazione, gioco di scrittura, sospesa tra dramma e commedia, il congegno poliziesco diventa secondario (Rai1, lunedì). L’abbiamo ripetuto tante volte:
Montalbano è uno dei pochi personaggi riusciti della fiction italiana, in perfetta fusione con il suo interprete Luca Zingaretti (che ora firma anche la regia, dopo la scomparsa di Alberto Sironi). Il suo metodo d’indagine è abitato da visioni e da missioni: sa che le sue sono sempre vittorie mutilate. Montalbano è ormai un marchio consolidato, un raro caso di «brand name», a garanzia di una serialità d’autore di alto artigianato.
Nel primo dei due nuovi episodi (ma ormai non c’è quasi più distinzione fra novità e replica), Montalbano deve fare luce sulla misteriosa morte di Agata Cosentino, il cui corpo viene ritrovato in un corridoio dell’archivio comunale. La prima scoperta è che Agata è una cara amica di Livia (Sonia Bergamasco), conosciuta a Genova dove la ragazza aveva lavorato per due anni, prima di ritrasferirsi di nuovo a Vigata, assunta all’archivio comunale. Prodotta da Palomar, sceneggiata da Andrea Camilleri, Francesco Bruni, Salvatore De Mola e Leonardo Marini, la serie ha successo perché Montalbano è uno dei pochi personaggi della fiction italiana ad avere un carattere ben definito e a rappresentare un piccolo sistema valoriale (anche di fronte a «rotture» rubate all’attualità: scene di adulterio, di lesbismo molto patinato, di pedofilia). Anche per questo è rassicurante.