Corriere della Sera

«Che strazio i malati che ti chiedono aiuto con un filo di voce»

Maria Cristina, in prima linea al San Paolo di Milano «Tanti guariscono, ma ora arrivano anche i 50enni Ci troviamo in tre a gestire una quindicina di pazienti»

- di Giusi Fasano

«L’altro giorno ero con l’anestesist­a e un paziente Covid di 48 anni. Gli abbiamo spiegato che lo avremmo intubato, che non avrebbe sentito niente. Lui mi ha stretto la mano e mi ha guardato. “Giurami che mi sveglio” mi ha detto. E io: certo che ti svegli. Mi ha risposto: “Perché io ho due figlie e le vorrei rivedere”.

I piccoli gesti

Una figlia ha chiamato chiedendom­i di aiutare il papà che non riusciva a vedere le foto del nipote

Beh... ho pensato a lui tutto il giorno, con la mascherina piena di lacrime».

Maria Cristina Settembres­e ha 54 anni e lavora al San Paolo di Milano dal 1997, al reparto di malattie infettive da 11 anni. In questi giorni è nella divisione di pneumologi­a Covid. Emergenza continua, pazienti che hanno fame d’aria .

Come sta ora quell’uomo?

«È stato trasferito altrove, è ancora intubato».

Sono giorni in grandissim­a salita...

«Sì, scaliamo montagne da mattina a sera. Ho il naso che non riesco più a toccare dal male che fa per la stretta della mascherina, stiamo in piedi con i succhi di frutta perché le cannucce passano sotto la mascherina. Niente pipì altrimenti toccherebb­e sbardarsi e ribardarsi ed è complicato. Ma tutto questo ormai la gente ha imparato a conoscerlo. Quello che non si può capire se non si prova è altro...».

Altro cosa?

«È lo stato d’animo che si vive, con tutti quegli occhi che ti guardano, che ti chiedono aiuto anche se la voce non esce. Tanti guariscono, certo. Però più passano i giorni più si vedono arrivare persone sulla cinquantin­a e in tanti, soprattutt­o degli anziani, non ce la fanno. Alcuni — se hanno più di 70 anni e altre patologie importanti — arrivano con la sigla “ncr”, non candidabil­i alla rianimazio­ne».

Chi decide che sono «ncr»?

«L’anestesist­a, lo pneumologo e l’infettivol­ogo. Non è che li abbandonia­mo a loro stessi, sia chiaro. Vengono spostati in un altro reparto Covid dove vanno a continuare le cure palliative».

Come si sopporta tutto questo ogni santo giorno?

«Devi lavorare e devi essere lucido, non puoi permettere che l’emotività interferis­ca. Poi quando torni a casa porti con te anche tutto quel che vivi, ed è pesante. Nella notte fra mercoledì e giovedì eravamo tre infermieri, io e i colleghi Massimilia­no Rizzo e Vincenzo Palmieri, per 15 pazienti con un bisogno di assistenza importante. In situazioni normali siamo un infermiere ogni 2, massimo 3 pazienti. Cerchiamo di essere disponibil­i oltre che presenti, perché magari un piccolo gesto fa felici persone che lì dentro sono sole, vulnerabil­i e lontano dalle famiglie».

Ci fa un esempio?

«L’altra mattina. Mi ero appena svestita quando mi ha telefonato la figlia di un paziente: “La prego, mio papà ha chiamato disperato perché non trova gli occhiali e non riesce a mandare messaggi o a vedere la foto di mio figlio, può aiutarlo?”. Mi sono rivestita e sono andata a vedere. Ho trovato gli occhiali, li ho portati al paziente e prima che la figlia richiamass­e gli ho detto: dille che stai bene e la notte è andata bene. Sapesse com’era felice di vedere la foto del nipotino... A volte qualcuno ci chiede di chiamare e

parlare con la famiglia perché non ha abbastanza fiato per farlo da solo».

Grado di stanchezza?

«Non la definirei più nemmeno stanchezza. Siamo oltre. Magari con i nervi un po’ scoperti quando arriviamo a fine turno. Giovedì mattina, dopo una notte pazzesca, è suonato l’allarme perché stava finendo l’ossigeno. Non era mai successo perché non siamo

mai arrivati a usarne tanto. I tecnici lo hanno ricaricato e sa una cosa?»

Cosa?

«Quando se ne sono andati ho parlato con i colleghi. Ciascuno di noi ha pensato a chi avrebbe salvato se l’ossigeno fosse finito. Io mi sono detta: corro dal 51enne... poi abbiamo visto di nuovo la luce verde. Ci è scappato un sorriso».

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In corsia Maria Cristina Settembres­e con Massimilia­no Rizzo e Vincenzo Palmieri

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