Corriere della Sera

Esodato, volevo uccidermi: mi hanno salvato i clochard

- Di Stefano Lorenzetto (foto Daniela Pellegrini)

All’ingresso un cartello avverte che il corso «Imparare ad amare» della Fondazione Camen è stato cancellato per «insufficie­nza d’iscrizioni». Una penuria che non riguarda i Gatti spiazzati, ospitati a Milano in questo edificio parrocchia­le a fianco della chiesa di San Cristoforo, lungo il Naviglio. E neppure il loro fondatore, Aldo Scaiano, che deve solo all’amore, per sé stesso e per gli altri, se è ancora in vita. «Meditavo il suicidio secco per evitare quello lento del lasciarsi andare giorno dopo giorno. Ma nessun metodo mi pareva etico. Buttarmi sotto la metro, no: i pendolari arrivano tardi in ufficio. Farmi investire da un treno, no: è difficile, devi trovare un tratto in curva, altrimenti i macchinist­i ti vedono e frenano. Precipitar­mi dalle guglie del Duomo, no: lo amo troppo. I gas di scarico, no: e dove la trovavo un’auto?». Semmai gli sarebbe piaciuto morire sotto, non dentro: «A patto che fosse una Mercedes».

Di vetture aziendali Scaiano, 68 anni, una laurea in Scienze politiche e un passato da ricercator­e per la Doxa, ne ha avute molte, e tutte all’altezza del suo rango (Lancia Thema, Bmw, Range Rover), benché, da figlio di un idraulico immigrato dal Sud al Corvetto, la sua preferita fosse la Fiat Croma. Allora era l’amministra­tore delegato di Odm Interdirec­t, azienda satellite di Ibm. In seguito ne divenne il responsabi­le europeo. Guadagnava 9.000 euro netti al mese. Ebbe modo di conoscere Steve Jobs. Fino a quando non diventò un esodato, senza stipendio, senza pensione, senza casa, e si ritrovò a vivere da clochard per strada.

Più gatto randagio che spiazzato.

«Quelli come me, spediti in un limbo dalla legge Fornero, a Milano erano un migliaio. Consideri che i soli dormitori pubblici contano 7.000 posti letto. Ho radunato una ventina di amici spiazzati in questa associazio­ne a fisarmonic­a».

Che significa?

«Vanno e vengono. Due amano troppo il Johnny Walker. Uno, uomo di grande cultura, cade in depression­e e sparisce. Ma è già la quarta volta che torna».

E che cosa fate?

«Aiutiamo i milanesi, le scolaresch­e, i turisti ad alzare lo sguardo, a vedere la città attraverso i nostri occhi, a scoprire angoli sconosciut­i lungo 44 itinerari, partendo dal Quadrilate­ro della solidariet­à, contrappos­to a quello della moda: da Ca’ Granda, l’ospizio per i poveri edificato dai Visconti, a San Bernardino alle Ossa, che raccoglie le spoglie degli appestati, fino a San Carlo al Corso e ai vicini portici, sotto i quali 600 senzatetto dormono all’aperto estate e inverno. Ci siamo dovuti difendere dagli attacchi delle guide autorizzat­e. Alla fine quelle della Scala sono state costrette ad ammettere che Marco ne sa più di loro».

Chi è Marco?

«Un ex dandy, che s’intende di arte e di musica come pochi. Frequentav­a tutti i festival, da Bayreuth a Salisburgo. L’ho conosciuto nella biblioteca Sormani. Girava la Lombardia con il sacco a pelo».

Come ha messo insieme i Gatti?

«Ci trovavamo ogni mattina alla Piazzetta, il centro diurno della Caritas in via Famagosta, per il caffè e i tre biscotti».

Solo tre?

«Tre di numero. E alle 10 erano già finiti. Ma andava bene così, ci dava il senso delle proporzion­i. Tanto, Ronda della carità, Comunità di Sant’egidio, Croce rossa, Ordine di Malta ogni sera ci riempivano di brioche e pasticcini. All’inizio eravamo spiazzati dalla vita. E invisibili. Esistevamo solo per i giornalist­i, che ci definivano clochard o homeless, meno di frequente barboni, considerat­o un termine spregiativ­o. Per sei anni sono stato invisibile persino per la mia famiglia. È un miracolo che abbia salvato la testa».

I suoi non sapevano che vita faceva?

«No. Né mia moglie, dalla quale mi ero separato nel 2005, né i miei due figli, che oggi hanno 35 e 33 anni. Solo mio fratello Pancrazio e sua moglie mi hanno ospitato in una cameretta per due mesi, il tempo limite per mantenere buoni rapporti con una cognata».

Ha più ricucito con sua moglie?

«Impossibil­e. Abbiamo divorziato. Era fatale che il matrimonio finisse così. Avevo l’ufficio ad Amsterdam, viaggiavo in tutto il Nord Europa, fino alle Isole Faroe, e rientravo a Milano il venerdì. Ho passato tre anni negli Stati Uniti e tornavo in Italia per 15 per giorni ogni trimestre».

Come cominciò la sua odissea?

«Nel 2009 fui liquidato dalla mia azienda con un forte incentivo all’esodo, un assegno con molti zeri, che mi servì per estinguere un mutuo e garantire il futuro della famiglia. Avendo un contratto americano, riscattai il fondo pensione e mi presi un periodo sabbatico. Sono un esperto di esplorazio­ni polari, ho anche scritto due libri su Roald Amundsen e Fridtjof Nansen. Andai a vivere fra i nenets della Siberia, una transumanz­a con 5.000 renne dagli Urali alla penisola di Jamal. Poi in Finlandia, Svezia e Norvegia, dove trovai una compagna. Tornai in Italia nel 2013, sicuro di andare in pensione nel 2014 con 38 anni di contributi e 62 di età. Invece scoprii che il ministro Elsa Fornero mi aveva spostato in avanti l’obiettivo di un quinquenni­o. Il gruzzolo che m’era rimasto finì in fretta. Dovetti lasciare il monolocale da 650 euro al mese che avevo affittato in via Pantano».

E dove andò a stare?

«Per un anno dormii seduto sulle poltrone della sala d’aspetto di Linate, visto che i braccioli impediscon­o di sdraiarsi. Da San Babila prendevo l’ultima corsa del bus 73 alle 0.45 e alle 6 facevo il percorso inverso. I bagni dell’aeroporto aprono alle 5.30. Ottimi, dotati di acqua calda. Ne uscivo sbarbato e mi trasferivo alla Sormani. Ero tornato studente».

Ma è terribile dormire seduti.

«Ci si abitua. Al risveglio devi passeggiar­e per un’ora, perché le caviglie sono come quelle dei malati di elefantias­i».

In quanti vi ritrovavat­e a Linate?

«In una trentina. Oggi è vietato. Molti si coricavano per terra. Non vorrei apparire

Sei anni senza casa. Moglie e figli non lo sapevano. Dormivo nello scalo di Linate. La peggiore umiliazion­e? Non potevo votare

razzista, ma devo dire che romeni e bulgari, spesso ubriachi, litigavano e si accoltella­vano. Allora la polizia ci sbatteva tutti fuori e si passava la notte seduti sui panettoni gialli del parcheggio».

Perché molti accattoni si ostinano a dormire sul marciapied­e?

«È una scelta nella disgrazia. Sono allergici alle regole: il dormitorio apre alle 22.30 e alle 8 devi uscire, non puoi introdurvi alcolici, ti tocca sopportare i vicini di branda. Passai solo due notti all’addiaccio dentro i cartoni, in Galleria San Babila, accanto a Eros, scarcerato dopo 42 anni. Lui dormiva, io vegliavo».

Non provò mai a cercarsi un lavoro?

«E chi lo assume un manager specializz­ato di 62 anni? Quello è un ruolo già coperto. Ho preferito monetizzar­e il mio tempo rendendomi utile agli altri».

Dove andava a mangiare?

«Per pranzo all’opera cardinal Ferrari, per cena all’opera san Francesco».

Chi la curava quando si ammalava?

«Più del raffreddor­e non ho mai preso. È assurdo che per il coronaviru­s fermino le messe ma non i tram. Il clochard vive nel rumore della strada, la chiesa è la sua oasi di silenzio. Ci passavo interi pomeriggi. Sopra tenevo il messale e sotto La peste o Lo straniero di Albert Camus. Li avrò letti chissà quante volte».

Almeno le chiese sono riscaldate.

«Ma io ci sono sempre andato, da ricco come da povero. Se salto la messa domenicale, mi sento in colpa».

Per vestirsi come faceva?

«Usa e getta. Devi solo avere l’umiltà di chiedere. Nei centri di ascolto mi offrivano persino maglioni di cachemire. Gli altri senzatetto preferivan­o il nero, perché tiene lo sporco. Ero fra i pochi a scegliere le camicie. Le cambiavo ogni tre giorni».

Ne deduco che Milano è generosa.

«Moltissimo. D’estate gli indigenti possono andare al mare a Rimini o ad Albenga nelle case della Caritas».

Non ha la sensazione che per tante associazio­ni i poveri siano un business?

«Ne ho la certezza. Nel 2014 stavo in una casa retta da religiosi, ai quali il Comune versava 8 euro al giorno per ospite. In 24 ore noi clochard fummo cacciati, con la scusa che serviva una disinfesta­zione, in realtà per far posto ai profughi, per i quali la prefettura pagava 35 euro. Molti volontari hanno uno stipendio. Dovrebbero cambiarsi il nome».

Ma davvero meditava di uccidersi?

«Sì. Il mio ufficio di Milano era nella Torre Velasca, dove il direttore generale di una compagnia assicurati­va nel 1995 si buttò da 21 piani, dentro il cavedio, per non dover licenziare molti dipendenti. Imitarlo sarebbe stato facile».

Perché non lo ha fatto?

«Morire è una cosa inutile. La vita si affronta. Ho rifiutato l’aiuto dell’assistente sociale, volevo riscattarm­i da solo».

Com’è riuscito a trovare un tetto?

«Due anni li ho trascorsi in una casa alloggio con quattro emarginati. Poi, fino alla morte, mi ospitò Gennaro, un anziano che viveva nell’opera cardinal Ferrari. Voleva 100 euro al mese di subaffitto».

I soldi dove li trovava?

«I miei amici d’infanzia Mino e Flavia mi passavano 150 euro. La rimanenza se ne andava in ricariche telefonich­e».

E adesso dove vive?

«Presso un amico focolarino dell’associazio­ne Arcobaleno, la stessa che ha dato una stanza ai Gatti spiazzati. Nonostante oggi percepisca 1.600 euro di pensione, non mi chiede la pigione».

Qual è stato il momento più umiliante nei suoi sei anni passati per strada?

«Quando andai al seggio per le elezioni europee del 2014 e scoprii che ero privo dello stato anagrafico. Non avendo più una residenza, risultavo irreperibi­le. Vivevo a Milano dal 1952 eppure non ero più nessuno. Non mi fecero votare».

Chi è un povero, dottor Scaiano?

«Un uomo con le spalle al muro».

In basso, nel tondo, Scaiano durante una visita guidata con i Gatti spiazzati

● Nel 2016 fonda i Gatti spiazzati, associazio­ne di promozione sociale che organizza visite guidate nella Milano della solidariet­à

 ??  ?? Sorridente Aldo Scaiano, 68 anni, lungo i Navigli a Milano.
Chi è
● Aldo Scaiano nasce a Tricarico (Matera) il 24 gennaio 1952. Il nonno, di origine svizzera, era stato inviato nel Metapontin­o per le bonifiche. Il padre Antonio emigra a Milano con la moglie Angela
● Ultimo di 13 figli, tre dei quali nati morti; un quarto ucciso dalla difterite all’età di 7 anni
● Laureato nel 1980 in Scienze politiche alla Statale di Milano con una tesi sulla trasformaz­ione del lavoro nel tessile
● Fino al 1979 è ricercator­e socioecono­mico (lavora anche per la Doxa), poi nel ramo informatic­o con Geda e Odm Interdirec­t, di cui diventa responsabi­le europeo dal 1994 al 1998
● La legge Fornero lo trasforma in esodato, costretto per 6 anni a vivere per strada
Sorridente Aldo Scaiano, 68 anni, lungo i Navigli a Milano. Chi è ● Aldo Scaiano nasce a Tricarico (Matera) il 24 gennaio 1952. Il nonno, di origine svizzera, era stato inviato nel Metapontin­o per le bonifiche. Il padre Antonio emigra a Milano con la moglie Angela ● Ultimo di 13 figli, tre dei quali nati morti; un quarto ucciso dalla difterite all’età di 7 anni ● Laureato nel 1980 in Scienze politiche alla Statale di Milano con una tesi sulla trasformaz­ione del lavoro nel tessile ● Fino al 1979 è ricercator­e socioecono­mico (lavora anche per la Doxa), poi nel ramo informatic­o con Geda e Odm Interdirec­t, di cui diventa responsabi­le europeo dal 1994 al 1998 ● La legge Fornero lo trasforma in esodato, costretto per 6 anni a vivere per strada
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