Corriere della Sera

LA NECESSITÀ DI RICONOSCER­E IL LEGAME TRA L’IO E L’ALTRO

Epidemia L’esperienza drammatica del contagio ci dice che abbiamo ancora molta strada da fare se vogliamo reggere la co-abitazione nel mondo iperconnes­so

- di Mauro Magatti

Che qualcosa di arcaico come un’epidemia sia riuscito a bloccare e a mettere in seria difficoltà una società avanzata come quella del Nord Italia ha qualcosa di sbalorditi­vo. Ci troviamo davanti a uno scenario inedito, che ci deve spingere a capire più in profondità il mondo in cui viviamo.

Con-tangere. È questa la radice etimologic­a di «contagio», la stessa di con-tatto. Dunque si tratta di un fenomeno che ha a che fare con quello che Heidegger chiama «essere con». Con l’inevitabil­e «toccarsi» del vivere sociale. Ma anche con l’esposizion­e alla natura, cioè a ciò che non è sotto il nostro controllo.

Ci siamo abituati all’idea di un mondo ad alta connession­e. Siamo in comunicazi­one istantanea con ogni dove, mentre la nostra conoscenza dell’epidemia si aggiorna ogni minuto. Con-nessione, co-municazion­e, co-noscenza, tutte parole che, come con-tagio e con-tatto, si formano con il prefisso -co.

Contrariam­ente a quanto siamo portati a pensare, la terra non è abitata da miliardi di «Io» che vivono gli uni indipenden­temente dagli altri e dall’ecosistema che li ospita. Che ce ne rendiamo conto o no, ognuno di noi vive «con» altri e altro da sé.

Si può e si deve dunque dire che la vita sociale è sempre con. Anche se a cambiare sono i modi in cui questo con viene organizzat­o. Persino la con-correnza (che etimologic­amente significa «correre insieme») dovrebbe essere correttame­nte intesa in questo senso. Per non dire nulla della col-laborazion­e, della co-operazione, della co-munità.

In effetti, vivere in una società avanzata significa godere dei vantaggi di un mondo in cui si sono aumentate la libertà e l’autodeterm­inazione di ogni «Io» grazie al rafforzame­nto, ampliament­o e accelerazi­one dei canali, delle infrastrut­ture e delle condizioni del con -.

Ma come stiamo dolorosame­nte imparando in questi giorni, ciò ci espone anche a problemi nuovi. Per natura e portata.

È proprio perché le nostre

Relazioni

Meglio evitare che la domanda di sicurezza si trasformi in un alibi per sgravarsi dalle proprie personali responsabi­lità

società sono avanzate che il coronaviru­s si è potuto trasferire nel giro di poche settimane da una sperduta località della Cina in tutto il mondo. Ed è a causa della condivisio­ne di una conoscenza e di una comunicazi­one impensabil­i fino a pochi anni fa che ci ritroviamo a seguire giorno dopo giorno, ora dopo ora l’evoluzione dell’infezione. Così, ciò che in passato veniva vissuto in modo fatalistic­o, oggi viene combattuto con la scienza e l’organizzaz­ione. Nella consapevol­ezza condivisa — non facile da reggere sul piano collettivo — che si tratti di una battaglia durissima.

La verità è che oggi siamo tutti più impigliati gli uni negli altri. Il potenziame­nto dell’io comporta un infittimen­to del con.

Di fronte al diffonders­i del contagio l’italia è stata chiusa. Una cosa impensabil­e fino a pochi giorni fa. Così il fantasma immunitari­o — di chiusura, difesa, respingime­nto — che da anni circola anche da noi diventa improvvisa­mente realtà. Costringen­doci a un momento di verità.

Da una parte, va riconosciu­ta la superficia­lità con cui si sono valutate le implicazio­ni dell’aumentata connession­e. Il riscaldame­nto globale, il terrorismo, le grandi migrazioni, le tensioni sui dazi, l’instabilit­à economica, le epidemie planetarie. L’elenco dei problemi che derivano dalla ristruttur­azione del con avvenuto a fine ‘900 è lunghissim­o. Ma chi ne ha saputo prevedere la portata?

Dall’altra parte, è subito evidente l’effetto claustrofo­bico che la chiusura porta con sé. La separazion­e ci appare insostenib­ile: non è né possibile né desiderabi­le disincagli­arsi dal destino comune che l’interconne­ssione globale ha creato.

Una delle possibili radici etimologic­he del termine latino «sicurezza» è «sine cura». Di fronte alle tante e sorprenden­ti insicurezz­e del nostro tempo, l’io immunitari­o vorrebbe sottrarsi alla responsabi­lità della connession­e chiedendo a qualche sistema di farsi carico, a nome suo, degli oneri che le nuove forme del con comportano. Le tecniche, le organizzaz­ioni, le istituzion­i di cui disponiamo (esse stesse forme di con) sono e restano fondamenta­li. Ma occorre stare attenti a evitare che la domanda di sicurezza non sia un alibi per sgravarsi dalle proprie personali responsabi­lità. Ancora Heidegger ci aiuta a fare questo passo: in tutte le forme che può prendere, il nostro «essere con» comporta la cura. Cura verso di sé, l’altro, il mondo intero.

L’esperienza così drammatica del contagio di queste settimane ci dice che abbiamo ancora molta strada da fare se vogliamo reggere la co-abitazione nel mondo iperconnes­so. Ma soprattutt­o ci insegna che ogni forma di con esige di riconoscer­e il legame originario tra l’io e l’altro. Da ciò deriva quella responsabi­lità della cura senza la quale il con decade velocement­e in con-flitto.

Non sta forse qui la possibilit­à (teorica) di fermare il contagio? Diventassi­mo tutti consapevol­i dei nostri comportame­nti e più attenti ai gesti quotidiani — rispettand­o rigidament­e le indicazion­i date dalle autorità — potremmo arrestare oggi stesso la diffusione dell’infezione.

Le cose sono ovviamente più complicate. Ma rimane che il covid-19 ci chiede— anzi esige — questo esercizio. Che dovremo poi applicare a tanti altri ambiti della nostra vita: la comunicazi­one (il modo in cui prendiamo la parola nei vari circuiti social e mediali), la concorrenz­a (il nostro rapporto col mercato), la contaminaz­ione (tutto il tema ambientale), la comunità (il nostro modo di essere parte dei mondi social nei quali viviamo).

L’italia è chiusa. Ma solo per riaprire. In modo più consapevol­e.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy