«Caro papà, non ti ho mai detto che ero infelice»
Caro papà, dopo trent’anni dalla tua scomparsa, ti scrivo da figlio e da padre. La spinta me l’ha data proprio tuo nipote, mio figlio. Da una ventina di anni ci vediamo di rado perché lui vive al Nord e io in Sicilia, ma ci vogliamo un gran bene e spesso ci sentiamo al telefono. Proprio ieri mi ha domandato il motivo per il quale spesso gli chiedo se è felice. Stavo per rispondergli ma lui mi ha detto: «Scusa, papà, me lo dici la prossima volta, devo andare». Sai, papà, vorrei che lui leggesse queste mie parole. Nella prossima telefonata gli dirò: figlio mio, te lo chiedo perché avrei tanto desiderato che mio padre l’avesse chiesto a me se ero felice! Sì, papà, è così. Se tu negli anni della mia adolescenza, anche una sola volta me lo avessi chiesto, ti avrei risposto di no. E forse avrei ricevuto da te l’aiuto che cercavo. Quattro brutti anni, papà, distrutti da una ragazza di cui mi innamorai senza accorgermi che mi «rubava» il cuore e lo buttava nella spazzatura. Ero soggiogato anche dalla timidezza che mi toglieva ogni possibilità di cercare un dialogo con te. Ti avrei voluto come «maestro» e amico, un rapporto che andasse oltre il rapporto autoritario genitore/figlio. In quegli anni era normale avere un genitore così, però se tu avessi ridotto le «distanze» tutto sarebbe stato diverso. Ma tu appartenevi al tuo tempo. Ecco perché a mio figlio domando: sei felice? Per dirgli che sono sempre pronto ad ascoltarlo in caso di bisogno.