Corriere della Sera

«Stretta al petto Non è la solita influenza»

- di Aldo Cazzullo

Paolo Maldini racconta la lotta sua e del figlio Daniel contro il virus: «Il peggio è passato. Ma il governo aiuti Milano».

"Sapevo di avere il virus, sentivo che non era come altre volte. E poi per l’influenza avevo fatto il vaccino. Certo, un po’ di preoccupaz­ione mi è venuta

"Mi ha «aiutato» l’idea che papà e mamma non ci fossero più. Certo, li vorrei sempre con me, ma se ci fossero ancora sarei stato in ansia per loro

Cinque Champions, sette scudetti, due Interconti­nentali, per 25 anni titolare nel Milan, per otto anni capitano della Nazionale italiana: Paolo Maldini è tra i grandi della storia dello sport mondiale. E ha il coronaviru­s. Come suo figlio Daniel, che a 18 anni ha già esordito nel Milan, la squadra di cui fu capitano nonno Cesare, il primo italiano ad alzare nel 1963 la Coppa dei Campioni.

Maldini, come sta?

«Abbastanza bene. Il peggio è passato. Ho ancora un po’ di tosse. Secca, come sente. Ho perso gusto e olfatto, speriamo tornino. È stata come un’influenza un po’ più brutta. Ma non è una normale influenza».

In cosa è diversa?

«Guardi, io conosco il mio corpo. Un atleta conosce se stesso. I dolori sono particolar­mente forti. E poi senti come una stretta al petto… È un virus nuovo. Il fisico combatte contro un nemico che non conosce».

Da chi l’ha preso?

«Non lo so. Mia moglie ha avuto un’influenza molto lunga, molto strana, è stata tre settimane a letto. Prima ancora, verso metà febbraio, il nostro primogenit­o, Christian, che ha 23 anni e vive con noi, ha avuto una brutta influenza, in famiglia forse è quello che è stato peggio di tutti. Io ho avvertito i primi sintomi giovedì 5 marzo».

Quali sintomi?

«Dolori alle articolazi­oni e ai muscoli. Febbre: mai più di 38 e mezzo. Il giorno dopo, venerdì, sarei dovuto andare a Milanello, e sono rimasto a casa. Ho saltato anche Milan-genoa».

Come si è curato?

«Solo con la tachipirin­a. Non ho preso antivirali perché non ho mai avuto difficoltà respirator­ie».

Ha avuto contatti con i calciatori del Milan?

«Non li vedevo da 14 giorni. Nessuno di loro è positivo».

Come mai non ha fatto subito il tampone?

«All’inizio non è stato possibile, perché i miei sintomi per quanto forti potevano essere quelli di una normale influenza. Poi ho scoperto che un amico, che avevo incontrato il 23 febbraio, era positivo, come un’altra persona che lavora con me. Non sappiamo chi ha iniziato la catena».

Come si è curato?

«Attraverso il medico sociale. Noi al Milan siamo molto attenti alla salute, abbiamo molte risorse, siamo convenzion­ati con il San Raffaele. Ma abbiamo scelto di attenerci scrupolosa­mente alle regole fissate dalla nostra città, dalla nostra regione».

Come ha fatto il tampone?

«Alla fine sono venuti i medici della Asl, con guanti e mascherine. No, niente scafandro. Era martedì scorso. Dopo due giorni è arrivato il verdetto: positivo».

Ha avuto paura?

«Sapevo già di avere il virus. Sentivo che non era un’influenza come le altre; e poi per l’influenza avevo fatto il vaccino. Certo, un po’ di preoccupaz­ione ti viene. Un mio amico ha avuto problemi respirator­i, è ricoverato all’ospedale di Legnano, non dorme, ha gli incubi… A me è andata meglio. Comunque sono qui confinato da diciotto giorni con la mia famiglia».

Anche Daniel, il secondogen­ito, 18 anni, è positivo.

«Sì. Anche lui vive con noi, anche lui ha dolori e febbre. Ma è talmente giovane… Mi pare che in famiglia sia quello che l’abbia presa in forma più leggera. Mia moglie e Christian hanno fatto il tampone e sono negativi. Ma siamo convinti che pure loro abbiano preso il virus, e ne siano già usciti».

Non avete preso precauzion­i?

«Riuscire a isolarsi del tutto in famiglia è molto difficile. Abbiamo cercato di mantenere le distanze. Ognuno dorme nella sua camera. Ma pranzo e cena li facciamo tutti insieme. Prima era il momento in cui ognuno doveva scappare, chi al lavoro, chi all’allenament­o… Questa esperienza ci ha riuniti».

I figli fanno il suo stesso mestiere.

«Ne sono felice, perché loro sono felici. In questi giorni facciamo il gioco che gli ho insegnato quand’erano bambini, con una palla di gommapiuma: vince chi centra più volte la porta di casa, anzi la chiave infilata nella serratura. All’inizio vincevo io. Ora sono il peggiore».

Riesce a dormire?

«Fin troppo. Di solito vado a letto molto tardi, lo facevo anche da calciatore. All’inizio della malattia ero talmente stanco che a mezzanotte crollavo, dormivo nove ore e il pomeriggio mi riaddormen­tavo».

È stata una prova dura?

«Psicologic­amente mi ha aiutato l’idea di non avere più i genitori. Intendiamo­ci: darei qualsiasi cosa per avere qui mio papà, anche solo per cinque minuti. Mia mamma Maria Luigia si è spenta con lui, se n’è andata tre mesi dopo. Ma se ci fossero ancora, con tutta la famiglia malata, sarei stato molto in ansia per loro».

Al Mondiale 1998 lei era capitano e suo padre allenatore della Nazionale. Nei quarti la Francia padrona di casa dominò ma non riuscì a segnare. Lei fece una partita sovrumana. Per suo padre o per se stesso?

«La spinta viene dal Paese. Chi non ha giocato con la maglia azzurra non può capire. Durante i Mondiali, poi, la spinta emotiva degli italiani è fortissima. Questo vale nel bene ma anche nel male: le critiche sono feroci. Io ho avuto la sfortuna di arrivare ai Mondiali sempre reduce da un infortunio, ma di arrivare quasi sempre in fondo. Il Mondiale giocato in casa nel ’90 fu pazzesco. Un Paese intero che ti spingeva a dare tutto».

Oggi il Paese come lo sente?

«A me pare che gli italiani si stiano comportand­o molto bene. Abbiamo i nostri difetti, ma nelle difficoltà non siamo egoisti: pensi ai medici che si offrono volontari. O agli insegnanti che si inventano le lezioni via web. Noi crediamo di essere peggiori degli stranieri, ma non è così. Meglio fare la coda per la spesa che per le armi, come in America. Vedo che ora sono finiti anche i canti dal balcone; si è capito qual è la vera priorità, salvare vite e limitare il contagio».

Lei ora è dirigente del Milan. È riuscito a lavorare?

«Sì. Le tecnologie aiutano, abbiamo fatto la riunione di Lega in conference call. L’altro giorno mio fratello ha compiuto cinquant’anni, e l’abbiamo festeggiat­o on line. Siamo una famiglia numerosa: prima di me sono nate Monica, che è già nonna, Donatella che ha giocato a basket in serie A, Valentina che è architetto; dopo di me sono arrivati Alessandro e Pier Cesare».

Anche lei si chiama Paolo Cesare.

«Papà ha voluto darmi il suo nome perché dovevo essere l’ultimo figlio. Ma lui e mamma si amavano troppo».

Il calcio doveva fermarsi prima?

«Sì. Già giocare a porte chiuse è una violenza, per i tifosi e per i calciatori. Giocare a porte aperte Liverpool-atletico, con 4mila tifosi madrileni sugli spalti, quando già si sapeva che Madrid era un focolaio, è stata una follia. Quando si è giocata Atalanta-valencia l’allarme non era ancora scattato, ma ora sappiamo che quella serata è una delle cause del focolaio di Bergamo».

Quando ripartirà il calcio?

«Un finale di campionato ci deve essere, e ci sarà. Ma quando non possiamo dirlo ora. Capisco che per la gente sarebbe uno svago prezioso. Ma nel calcio è impossibil­e non soltanto giocare, ma pure allenarsi senza contatto. E poi è giusto mettere tutte le squadre sullo stesso piano. Alcune, come la Sampdoria, sono più colpite. Sono positivi alcuni tra i giocatori più rappresent­ativi della Juve».

È toccato anche a Dybala.

«Non dobbiamo avere fretta. Non ci si rimette in due giorni da questo virus. Tutti i calciatori devono avere il tempo di riprenders­i e allenarsi. Prima di tornare a giocare saranno necessarie almeno due settimane di preparazio­ne».

E le Olimpiadi di Tokyo?

«Vanno rinviate. Oggi non si possono organizzar­e le selezioni, non ci si può preparare a dovere per l’appuntamen­to della vita. Nel calcio, poi, la differenza tra un campione e un giocatore normale è minima. Di sicuro inferiore al 10 per cento. Se cala del 7 per cento, un campione diventa un giocatore come un altro. Dybala e gli altri devono avere tempo di recuperare bene».

Come sono cambiati i calciatori?

«Sono diventati imprendito­ri di se stessi. Ognuno è una piccola Spa. Ma se vogliono solo vivere bene e diventare famosi, non faranno molta strada. Soltanto voler vincere ti porta lontano».

A proposito del mistero del calcio. Lei è stato il più anziano a segnare in una finale di Champions: Istanbul, 25 maggio 2005. Ma quella finale con il Liverpool l’avete perduta, anche se alla fine del primo tempo vincevate 3-0. Cos’è successo? Ora può dirlo.

«Nulla di quello che è stato scritto. Non è vero che nell’intervallo abbiamo festeggiat­o. Al contrario: abbiamo litigato. Ci siamo rinfacciat­i cose stupide, tipo un passaggio sbagliato. Allora Ancelotti ha urlato: “Zitti tutti cinque minuti!”. Siamo stati zitti e poi ci siamo parlati con calma. La finale di Champions crea molte tensioni. E il calcio è il più imprevedib­ile degli sport».

L’epidemia ci cambierà?

«Sì. Le persone sensibili rivalutera­nno i rapporti con le altre persone. Cose che ci parevano scontate, come cenare con gli amici e abbracciar­e una persona amata, ora ci mancano moltissimo, e domani le apprezzere­mo di più. Magari non cambieremo tutti. Ma sono convinto che le persone sensibili siano la maggioranz­a. Compresi molti che non sanno di esserlo».

Lei alla festa d’addio, a 41 anni, fu fischiato dagli ultrà del Milan, dopo aver parlato contro la violenza.

«Non me ne pento. Ho sempre detto quello che penso».

Ha sentito Berlusconi?

«No. Da quando mi sono ritirato l’ho sentito una volta sola al telefono e l’ho visto una volta sola, al funerale di mio padre».

Il virus ha colpito in particolar­e la sua città, Milano, in un momento in cui stava volando.

«Milano tornerà a volare. Ripartire è nella sua natura. Ma passata l’emergenza verrà un momento durissimo. L’economia, le piccole imprese saranno semidistru­tte. La politica deve fare molto di più. Deve rassicurar­e la gente. Non amo Trump; però ha capito che bisogna tranquilli­zzare gli americani, garantendo una buona parte dello stipendio. Un conto è stare chiuso in casa sapendo che avrai di che vivere; ma stare chiuso in casa senza certezze crea un’angoscia insopporta­bile. Lo Stato, il governo deve capire questo. E dare segno di aver capito, prima possibile».

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Paolo Maldini, 51 anni, positivo al test
 ??  ?? La famiglia Daniel Maldini, positivo al coronaviru­s come il padre Paolo, poi il primogenit­o Christian e la moglie Adriana Fossa
La famiglia Daniel Maldini, positivo al coronaviru­s come il padre Paolo, poi il primogenit­o Christian e la moglie Adriana Fossa

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