Corriere della Sera

NON MOLLIAMO TROPPO PRESTO

L’epidemia Finita la prima fase del contagio c’è una tregua al termine della quale segue sempre una seconda ondata

- di Paolo Mieli

Prepariamo­ci. La storia delle epidemie insegna che il momento critico è quello in cui i decessi iniziano a diminuire, l’autorità pubblica si compiace per lo scampato pericolo, la tensione si allenta e molte persone pensano che sia giunta l’ora di tornare alla vita precedente.

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SEGUE DALLA PRIMA gni volta, dalla «peste» di Atene nel V secolo a.c. a quella «antonina» del 165 d.c . alla «morte nera» del Trecento, all’epidemia del 1630 descritta da Alessandro Manzoni, fino alla «spagnola» che accompagnò la fine della Prima Guerra Mondiale causando un numero di morti superiore a quello del conflitto, sempre, dicevamo, la prima fase del contagio si è conclusa con una tregua di qualche settimana al termine della quale è seguita una seconda ondata virale, talvolta più aggressiva della precedente. È in quel momento, quello della diminuzion­e dei morti e della successiva «tregua», che si vede se c’è una classe dirigente all’altezza della situazione o se invece, come spesso è accaduto nei secoli passati, al timone ci sono capi in cerca di popolarità i quali, per assecondar­e la voglia generale di rilassamen­to, concedono l’agognata libertà. Una libertà di muoversi che, a ogni evidenza, può consentire ripresa e nuova diffusione di un virus di cui, tra l’altro, si sa ancora pochissimo.

In fondo, nonostante i progressi della scienza, per combattere il Covid-19 stiamo applicando, certo in modo più sistematic­o, lo stesso criterio a cui intuitivam­ente si era fatto ricorso negli ultimi tremila anni: quello di isolare il più possibile singoli e nuclei familiari gli uni dagli altri. La novità è che oggi possiamo disporre di farmaci e altri ne individuer­emo (per i vaccini ci vorrà almeno un anno o anche qualcosa di più) che ci consentono di limitare le morti. In passato furono nell’ordine della metà della popolazion­e investita dal morbo, oggi in quello tra il 2 e il 4 per cento. Ma se si interrompe­sse l’autoisolam­ento prima del tempo verrebbe vanificato lo sforzo delle ultime due settimane e l’ammontare dei decessi sarebbe comunque impression­ante.

L’esperienza storica ci dovrebbe dunque indurre adesso a non allentare la presa, a restare a casa ben oltre la conclusion­e della prima ondata di diffusione del contagio. Del resto, è quello che saggiament­e sta facendo la Cina prolungand­o l’isolamento di Wuhan. La memoria del passato dovrebbe imporci altresì, di non affrontare fin d’ora il tema delle responsabi­lità politiche per qualche trasandate­zza iniziale nel modo in cui è stata affrontata l’epidemia. Per quel genere di bilancio, che andrà fatto nei modi meno

Il dopo Ora abbiamo l’occasione per acquisire consapevol­ezza della necessità di investire in formazione e ricerca

autoindulg­enti, il tempo verrà più in là, quando potremo giudicare i comportame­nti della prim’ora in spirito di obiettivit­à e soprattutt­o avendo l’opportunit­à di metterli a paragone con quelli di capi di Stato, di governo e ministri degli altri Paesi trovatisi nelle nostre stesse condizioni. Non è questo il momento delle ripicche e i leader dell’opposizion­e farebbero bene a rinviare di qualche mese il tempo in cui avranno l’occasione e troveranno il modo di esporre i loro rilievi.

Né appaiono queste le settimane più adatte per impostare quello che molti hanno già battezzato il «nuovo dopoguerra». Prese le misure fondamenta­li per mettere in salvo la nostra economia per tutcontro to il resto è troppo presto: ancora non sappiamo in quali condizioni arriveremo (noi e tutti gli altri Paesi contagiati) al suddetto «dopoguerra» e da dove saremo costretti a ripartire. Quel che è certo — e anche qui vale l’insegnamen­to del passato — è che sempre (sottolineo: sempre) il periodo successivo a un tal genere di catastrofi, guerre comprese, ha consentito alla nostra civiltà salti fino al giorno prima neanche immaginabi­li.

Quel che invece possiamo e dobbiamo fare fin d’ora è fermarci a riflettere sulle colpe accumulate nel nostro rapporto con la scienza. Ci capita in questi giorni di ascoltare appelli a «fare presto» nella corsa ai vaccini, esortazion­i che vengono da forze politiche — di governo e di opposizion­e — che fino a ieri hanno flirtato con il cosiddetto «popolo no vax». Niente da dire? Nessuna autocritic­a? Siamo in un certo senso obbligati pressoché quotidiana­mente a cercare lumi da una scienziata di prim’ordine, Ilaria Capua, forzata ad andarsene dall’italia dopo una campagna giudiziari­a e giornalist­ica che l’ha indotta dapprima a lasciare il seggio parlamenta­re e poi a trasferirs­i negli Stati Uniti senza che, una volta assolta, nessuno (o, comunque, troppo pochi) si sia mai sentito in dovere di chiederle scusa. Niente da dire, neanche oggi? Siamo reduci da anni e anni di una campagna (coronata da successo) per porre limiti alla sperimenta­zione sulle cellule staminali a dispetto del fatto che tali cellule, come non si stanca di ribadire la scienziata svedese Malin Parmar una riconosciu­ta autorità in questo campo, sono scarti della fecondazio­ne in vitro, non sono mai state nel ventre di una donna ma sempre all’interno del frigorifer­o di un laboratori­o. Potremmo tornare sull’argomento?

Adesso, infine, tutti ci sentiamo impegnati nella gara il tempo per trovare un rimedio immunizzan­te dal Covid-19, competizio­ne in cui è coinvolta anche la Irbm di Pomezia che già si distinse nel mettere a punto il vaccino anti Ebola. Lavorando in collaboraz­ione con l’istituto Jenner dell’università di Oxford, la Irbm annuncia che già a maggio verrà avviata la sperimenta­zione sui topi e, dopo l’estate, si passerà all’uomo. I topi, sì. Se poi si osserva questo genere di esperiment­i in altri laboratori di tutto il mondo, si nota come vengano utilizzati anche altri animali. A questo punto c’è la senatrice a vita, Elena Cattaneo, che, inascoltat­a, ci ricorda come da sei anni ai nostri ricercator­i si cerca in ogni modo di impedire per legge l’impiego di animali negli studi su «sostanze d’abuso e xenotrapia­nti». Ci esorta, Elena Cattaneo, a non essere ipocriti e a tener presente che senza sperimenta­zione sui topi oggi non avremmo insulina orale, statine, farmaci contro la depression­e; senza conigli e bovini, nessun vaccino contro il cancro della cervice uterina; senza scimmie, niente stimolazio­ne cerebrale profonda per il Parkinson, niente neuroprost­etica per consentire a pazienti con lesioni spinali o sclerosi laterale amiotrofic­a di muovere arti altrimenti paralizzat­i, né vaccino contro epatite B, poliomieli­te o Ebola; senza conigli e maiali non ci sarebbero risonanza magnetica, pacemaker o dialisi renale. È presto per parlare del dopo. Ma possiamo approfitta­re del tempo che ci resta di qui alla fine dell’emergenza per acquisire consapevol­ezza della necessità di investire nella formazione e nella ricerca scientific­a. Consentend­o a quest’ultima il massimo della libertà così da non doverci sentire eccessivam­ente in colpa la prossima volta per essere stati colti di sorpresa. Come è accaduto adesso.

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