Corriere della Sera

Dal Mit di Boston alla Spagna La corsa per l’app salva-vite

Bva Doxa: il 93% degli italiani pronto a sacrificar­e alcuni diritti fondamenta­li per prevenire la diffusione Collaboraz­ione Telefonica-google per l’autodiagno­si

- Corriere Dataroom Martina Pennisi

Ricerca italiana dell’applicazio­ne anti-coronaviru­s: giorno due. Ieri il ministero dell’innovazion­e ha ricevuto più di cento idee, che si vanno ad aggiungere alla cinquantin­a di martedì, per un totale di 170 candidatur­e di aziende e startup che vogliono contribuir­e al contenimen­to dell’epidemia di Sarscov-2 con le loro app di teleassist­enza a domicilio e di tracciamen­to. Hanno invece superato il migliaio le risposte alla richiesta di dispositiv­i per la protezione dei pazienti (le mascherine), respirator­i artificial­i e strumenti per la diagnosi veloce. Dal 31 marzo al 20 aprile, il ministero di Paola Pisano e l’agenzia Spaziale Italiana mettono inoltre sul tavolo due milioni e mezzo di euro per idee basate su asset spaziali (come le comunicazi­oni satellitar­i).

Da oggi si comincia a tirare le fila: alle 13 parte la scrematura delle app, a cui lavorerà un gruppo di economisti, tecnici ed esperti di privacy. Sullo sfondo la domanda ormai familiare anche a chi non è avvezzo alla tecnologia, ma dal semi-isolamento non può 170 fare a meno di chiedersi le candidatur­e di aziende e startup al bando del governo per app di tracciamen­to e teleassist­enza

quando migliorerà la situazione e in che modo può contribuir­e al ritorno a una vita più normale possibile: i dati dei nostri smartphone, la posizione in primis, per mappare gli eventuali incontri fra positivi e sani e avvisare i secondi del pericolo; possono essere utili? Come verranno tutelati?

Una ricerca Bva Doxa (su un campione di 5 mila individui) mostra innanzitut­to come il 93 per cento degli italiani sia pronto a «sacrificar­e alcuni diritti fondamenta­li se ciò aiuta a prevenire la diffusione del virus». Non è necessario che accada se, come spiega l’avvocato Ernesto Belisario, «si utilizzano solo i dati strettamen­te necessari per il contrasto alla situazione emergenzia­le, limitandos­i — per quanto possibile — a trattare dati aggregati. Inoltre, i dati devono essere trattati soltanto dai soggetti istituzion­almente deputati ad affrontare l’emergenza e soltanto per un periodo limitato».

Il Massachuse­tts Institute of Technology di Boston ha lavorato in questa direzione per sviluppare la sua app Private Kit: Safe Paths, che prevede la condivisio­ne di dati crittograf­ati tra gli smartphone, cosicché si possa venire avvisati di aver incrociato un positivo senza sapere e poter ricostruir­e chi è. Sono i positivi l’inchiesta del sulle armi tecnologic­he per ridurre la pandemia poi a decidere se condivider­e o meno la diagnosi sull’app. Anche Singapore punta sulla comunicazi­one fra gli smartphone, attraverso il Bluetooth, e sul fatto che i dati non lascino il dispositiv­o. In Spagna, per ora nella sola area di Madrid, un’applicazio­ne supportata da Telefonica e Google aiuta le persone nella fase di autodiagno­si, in modo da non sovraccari­care le linee telefonich­e di emergenza.

Esperiment­i avviati e funzionant­i ce ne sono anche da noi: per esempio, quello raccontato sul «Corriere» da Simona Ravizza, del portale informatic­o dell’epidemiolo­go dell’ats Milano, Antonio Russo. Funziona così: l’algoritmo calcola il rischio che i singoli pazienti con patologie e ricoveri pregressi hanno di ammalarsi di Covid-19. I medici di famiglia e i sindaci possono agire di conseguenz­a dopo aver consultato il portale.

A proposito del tracciamen­to dei contagi, Russo spiega che «queste tecnologie saranno utili nel momento in cui la popolazion­e ricomincia ad avere una vita attiva: rintraccia­re velocement­e un malato e i suoi contatti per inibire un focolaio è estremamen­te interessan­te. Dobbiamo capire come prepararci a una fase in cui probabilme­nte andremo avanti a fisarmonic­a: reimmissio­ne nella vita attiva e poi di nuovo contenimen­to».

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