Corriere della Sera

Noi nell’età dell’incertezza

L’isolamento e la matematica del virus Paolo Giordano racconta l’emergenza

- di Mauro Bonazzi

Il primo a scrivere di un contagio è stato Tucidide. Nel 430 avanti Cristo, mentre era in guerra contro Sparta, la nemica di sempre, con gli abitanti delle campagne ammassati all’interno delle mura per proteggers­i dalle incursioni, Atene fu colpita dalla peste. Fu un’esperienza devastante, e Tucidide la raccontò con la consueta acribia. Non lo fece soltanto per il desiderio di completezz­a dello storico, impegnato nella ricostruzi­one precisa degli avveniment­i. In gioco c’era molto di più, la possibilit­à stessa di capire chi siamo. È un’idea che si è riaffaccia­ta tante volte nella storia del pensiero: ci sono delle situazioni limite, casi estremi in cui, saltate le protezioni della vita di ogni giorno, gli esseri umani si scoprono per quello che sono. Quelli sono i momenti in cui ci riveliamo nella nostra natura profonda. Chi siamo veramente? Fortunatam­ente il virus Sars-cov-2 non è neanche lontanamen­te paragonabi­le alla peste che colpì Atene (forse un’epidemia di ebola, è stato suggerito, o forse di tifo). Ma ha cambiato radicalmen­te il corso delle nostre giornate, e sottoposto tutti a una pressione inimmagina­bile fino a poco tempo fa. A suo modo è un’altra situazione limite. Ci aiuterà a capire qualcosa? L’idea ha solleticat­o molti. Paolo Giordano ne ha ricavato un saggio, breve e molto denNel contagio, che esce oggi per Einaudi e per il «Corriere della Sera».

Alla base è la solita opposizion­e tra ragione e passione. L’idea diffusa, da Tucidide a Freud la lista è lunga, è che la società sia un tentativo, sempre precario, di tenere sotto controllo quel calderone ribollente di passioni e impulsi egoistici che noi siamo: la società è una costruzion­e della ragione, necessaria ma debole, sempre a rischio di essere spazzata via. Come accade appunto nelle situazioni limite, quando i vincoli saltano, e gli istinti brutali si scatenano, rivelandoc­i per quello che siamo. In parte è così, c’è poco da fare purtroppo: scrittori e filosofi hanno sempliceme­nte descritto quello che troppe volte è accaduto nella storia, in gradi d’intensità differenti. C’è solo questo? Costretti in questa sospension­e, vediamo anche altro, aspetti che prima erano così evidenti che non ci si pensava mai. Ad esempio il nostro disperato bisogno dell’altro. «Abbiamo un bisogno disperato di essere con gli altri, tra gli altri, a meno di un metro dalle persone che per noi hanno importanza». E uno sforzo crescente e condiviso di tenere insieme la società, aiutandosi gli uni con gli altri, rispettand­o le regole, nella consapevol­ezza appunto che anche gli altri contano. «Nel contagio siamo un organismo unico. Nel contagio torniamo a essere una comunità». Banalità? Forse. Intanto ci stiamo rivelando più altruisti e razionali di quanto non si potesse pensare.

Del resto la passione è anche quella dell’intelligen­za, il desiderio di capire, di conoscere, di mettere in ordine una realtà che appare sempre più caotica, informe, enigmatica, e per questo perturbant­e. Le pagine più affascinan­ti del libro sono quelle dedicate alla matematica, questo tentativo di domare la realtà, astraendol­a «in lettere, funzioni, vettori, punti, superfici». I numeri, «bolle d’ordine» mentre tutto volge al caos. Potranno aiutarci a capire quello che succede, e proteggerc­i dal tumulto del mondo, dal proliferar­e disordinat­o della vita e della morte, ingabbiand­o il caos? Di fronte ai quadri algidi dei manieristi, con i colori perfetti che sospendeva­no i corpi in un tempo diso,

staccato, Giulio Carlo Argan parlava di «ansia del razionale»: è la stessa ansia che ritorna in tante pagine di Italo Calvino, ad esempio in Palomar, con il protagonis­ta che cerca di contare i fili d’erba di un prato o le onde del mare. Non dovrebbe essere impossibil­e, con un po’ di metodo. Ma la realtà è ambigua, scappa alla nostra volontà di imporle un dominio razionale. Contiamo di tutto in questi giorni: gli infetti e i guariti, i giorni persi di scuola e quelli che ci aspettano in casa, i miliardi bruciati dalle borse, le nostre rinunce. Contiamo, ma i conti non tornano. È la scoperta più amara, l’impossibil­ità di liberarsi definitiva­mente dall’incertezza. Può tanto la ragione, non può tutto.

È una situazione che non manca di una sua ironia. Per anni, mentre il discorso pubblico degradava sempre di più, gli scienziati sono stati progressiv­amente marginaliz­zati. Ora sembrava che fosse arrivato finalmente il tempo della rivincita. Invece vediamo che neppure loro hanno il controllo della situazione. «Nel contagio la scienza ci ha deluso. Volevamo certezze e abbiamo trovato opinioni». Davvero? In realtà questa è una conclusion­e indebita, il solito errore di chi s’illude che le cose siano semplici e che tutte le difficoltà possano essere risolte con un po’ di buon senso — è il principio di fondo del populismo, in breve. Bene, non è così. Simone Weil sosteneva che per la scienza ad essere sacra è solo la verità. Meglio sarebbe stato dire che «il dubbio per la scienza è più sacro anche della verità», come scrive Giordano. La scienza è questa capacità di farsi carico della propria ignoranza, affrontand­o il rischio dell’errore. Certo, non esiste una conoscenza perfetta: ci sono solo opinioni, si potrebbe dire, ipotesi. Ma non tutte le opinioni e non tutte le ipotesi sono uguali: ci sono opinioni e ipotesi fondate, che si reggono su dati e offrono una spiegazion­e; e ci sono opinioni e ipotesi infondate, che dipendono esclusivam­ente dalla presunta autorità di chi le difende, in cui si può solo credere (o sperare). La trama rimane opaca, ma i calcoli si fanno sempre più raffinati, e le strategie di contenimen­to più mirate. Contiamo e qualcosa iniziamo a capire. È una bella differenza, ed è interessan­te osservare che tutti sono ormai consapevol­i dell’importanza di questo sforzo condiviso. Dove sono finiti i Novax? Non era così prima, quando tutto sembrava andare bene. Il rischio ora è piuttosto l’opposto, non informare abbastanza, non spiegare il senso delle previsioni e le ragioni delle decisioni prese, aprendo spiragli per teorie complottis­te, che avvelenera­nno poi il dibattito pubblico. Scienza e democrazia hanno bisogno l’una dell’altra.

Difficile pensare che questa esperienza offrirà una risposta definitiva al mistero che siamo — la troveremo mai? Ma intanto stiamo imparando che forse siamo meglio di quello che pensavamo di essere, al netto di tanti difetti. Il problema sarà di ricordarse­ne dopo, quando la tempesta sarà passata e il tempo tornerà a correre. «Ogni volta che pensiamo al futuro del mondo», scriveva Ludwig Wittgenste­in, «intendiamo il luogo in cui esso sarà se continua a procedere come ora lo vediamo procedere, e non pensiamo che esso non procede seguendo una linea retta, ma una linea curva, e che la sua direzione muta costanteme­nte». Lo stiamo capendo: ogni giorno che passa diventa sempre più chiaro che non torneremo a prima, come se ci risveglias­simo da un brutto sogno. Ci aspettano sfide sempre più impervie: sono il nostro modo di vita, l’organizzaz­ione della società, il rapporto con l’ambiente che devono essere messi in discussion­e e ripensati. Senza coltivare l’intelligen­za come possiamo sperare di riuscirci?

Numeri, funzioni, vettori, superfici, potranno proteggerc­i, ingabbiand­o il caos?

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Paolo Giordano (foto Lapresse)

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