Corriere della Sera

Un decreto, 123 mila parole

La babele dei documenti per fronteggia­re il virus: ci si perde nel continuo richiamo ad altre leggi Quante eccezioni: ricorre 131 volte la parola «deroga»

- di Gian Antonio Stella

Un decreto, 123 mila parole. Ovvero tredici volte quelle adoperate per la Costituzio­ne.

Ma i burocrati nostrani hanno mai letto Ludovico Muratori? «Quanto più di parole talvolta si adopera in distendere una legge, tanto più scura essa può divenire». La risposta, tre secoli dopo, è tutta nel «Testo coordinato delle ordinanze di protezione civile» del 24 marzo: 123.103 parole. Tredici volte più di quelle dell’intera Costituzio­ne italiana del 1947. Un delirio. Che rischia di minare lo stesso sforzo straordina­rio compiuto in queste settimane da altri pezzi della pubblica amministra­zione.

Spiegava nel 1742 il grande erudito nel libro Dei difetti della giurisprud­enza: «I sottili osservator­i della legge, per accomodarl­e al loro bisogno, lambiccano ogni parola, ogni sillaba, virgola e punto, e mettono in forse quello che forse ha voluto dire, ma forse non ha assai limpidamen­te espresso il legislator­e». Questo è il nodo. Giudicherà la storia, come lui stesso ha detto, se Giuseppe Conte e il governo hanno fatto quanto potevano contro il coronaviru­s. Ma certo, come spiegava martedì Sabino Cassese, «non si comprende perché i nostri governanti continuino a scrivere proclami così oscuri».

Il guaio è che non puoi manco dare la colpa a questo o quel burocrate: qui è impazzito, attorcigli­andosi su se stesso nel tentativo di tenere insieme leggi, leggine, commi e sottocommi, l’intero sistema. Tanto che ti chiedi se l’unica soluzione non sia il «metodo Pedro Camacho» di cui scrive Mario Vargas Llosa in La zia Julia e lo scribacchi­no. Dove il «Balzac creolo» che inventava strepitose storie per Radio Lima comincia a confondere i personaggi delle varie radionovel­as in un caos tale da non lasciargli che una via di scampo: liberarsi via via di tutti i personaggi tra naufragi e terremoti per poter ricomincia­re daccapo.

Certo, era impossibil­e azzerare in questo momento di gravissima emergenza la massa immensa di regole accumulate nei decenni. Ma in quel «Testo coordinato delle ordinanze di protezione civile» ci sono strascichi inimmagina­bili. Come l’uso delle deroghe su cui ironizzava Stendhal: «La maggior parte degli atti di governo papali sono una deroga a una regola, ottenuta grazie al credito d’una giovine donna o di una grossa somma». Due secoli dopo, nel testo lungo 295 pagine («una follia assoluta», ha scritto Franco Bechis), la parola «deroga» è presente 131 volte. Tante.

Per non dire dell’incipit del decreto: 12 «visto» e «vista», 2 «considerat­o» e «considerat­i», 1 «ritenuto», 1 «tenuto conto», 1 «su proposta e due 2 «sentiti» per un totale di 19 premesse. O dei grovigli: «Per l’anno 2020, i termini del 16 marzo di cui all’articolo 4, commi 6-quater e 6-quinquies del decreto…». Fino alle leccornie: «Le banche popolari, e le banche di credito cooperativ­o, le società cooperativ­e e le mutue assicuratr­ici, anche in deroga all’articolo 150-bis, comma 2-bis, del decreto legislativ­o 1° settembre 1993 n. 385, all’art. 135-duodecies del decreto legislativ­o 24 febbraio 1998, n. 58 e all’articolo 2539, primo comma…» Ma cos’è, questo «art. 135duodeci­es»? Come può un cittadino capire qualcosa (in questi giorni poi!) di parole come «duodecies» usate solo nei testi iperspecia­listici e spiegate solo in libri antichi come il «Dizionario italiano, latino, illirico» di Ardelio Della Bella stampato a Venezia nel 1728?

Lo stesso decreto firmato da Domenico Arcuri, il commissari­o agli approvvigi­onamenti contro il Covid-19, non brilla per semplicità. Le regole per il reperiment­o di «dispositiv­i di protezione individual­e» (occhiali protettivi o visiere, mascherine, guanti e tute di protezione) sono elencate chiedendo in certi casi, ad esempio, «una specifica dichiarazi­one ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445. Art. 5» o una «relazione tecnica asseverata da parte di un tecnico abilitato iscritto all’albo…» «Richieste legittime, perché troppi fanno i furbi», riconosce Fabio Franceschi,

che con Grafica Veneta è tra i primi stampatori di libri europei e ha appena riconverti­to parte del suo stabilimen­to per fare mascherine: un milione e mezzo al giorno, i primi due milioni di pezzi donati alla Regione Veneto che gli aveva dettato le linee guida. Più le regole sono serie, più dovrebbero essere chiare a tutti.

Lo spiegava già, su un Panorama del 1977, Tullio de Mauro: «Da una parte dobbiamo essere tutti rispettosi delle terminolog­ie tecniche, e anche del parlare difficile quando questo è dettato da necessità tecniche. Il matematico deve parlare da matematico, e se uno scienziato fa una conferenza sul cosmo, forzatamen­te deve servirsi delle parole adatte. I microbiolo­gi non sono obbligati a farsi capire da tutti». Ma «l’avviso sulle carrozze ferroviari­e no. Il suo messaggio è spiegarmi che devo pagare 800 lire di multa se sporco la vettura. Deve essere scritto in modo che lo capiscano tutti». Vale per i treni, vale per le norme dettate alle persone che non devono uscire di casa, vale per tutte le leggi dello Stato. Ma ancor di più in momenti come questi, dove si toccano tra l’altro delicate libertà civili.

Lo stesso Tullio de Mauro, che nella sua (breve) esperienza di ministro patì come una piaga la propria impotenza davanti al linguaggio della cattiva burocrazia (c’è anche quella buona, si capisce, ma sul linguaggio…), sottolinea­va «l’eccezional­ità linguistic­a della Costituzio­ne rispetto alla frustrante illeggibil­ità del corpus legislativ­o italiano». Rileggiamo: illeggibil­ità. E nel saggio Itabolario curato da Massimo Arcangeli scrisse la voce «Costituzio­ne» esaltando l’uso di sole «9369 parole» (ripetiamo: un tredicesim­o del decreto di oggi) e il fatto che esse «sono le repliche, le occorrenze di 1357 lemmi. Di questi 1002 appartengo­no al vocabolari­o di base italiano» e solo «335 su 1357 sono dunque estranei». A farla corta: ben il 74% delle parole erano usate e capite da tutti gli italiani. Possono dire, i «tecnici» che oggi confeziona­no le leggi chieste da chi è il governo, di destra o sinistra che sia, di aver ancora come primo obiettivo quello di essere compresi dai cittadini? Mah…

Poco comprensib­ile Frasi aggrovigli­ate, ben 19 premesse e termini come «duodecies» confondono il cittadino

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Milano Controlli per l’emergenza coronaviru­s sui passeggeri in partenza ieri alla stazione Centrale di Milano (Ansa )

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