Corriere della Sera

DAI BALCONI LE LACRIME PER I MORTI SENZA TOMBA

Chiusi i bar, ci si affaccia sulla strada per bere il caffè, prendere il sole, ma anche piangere i propri cari che non possono nemmeno essere sepolti

- di Karina Sainz Borgo

Sono passati quasi quindici giorni da quando il governo spagnolo ha decretato lo stato di allerta per contenere il contagio del coronaviru­s, conseguenz­a di una crisi che c’era già prima che fosse annunciata. Lo scorso 15 marzo, settemila persone erano infette. Oggi la cifra sfiora i quarantami­la e le vittime arrivano quasi a quattromil­a. Questa settimana, la Spagna ha superato la Cina per numero di morti, di cui il personale medico rappresent­a una percentual­e importante, per mancanza di dispositiv­i di protezione.

Il silenzio anestetizz­ante del governo si è trasformat­o in una assordante sirena d’allarme. La primavera, il tempo dei locali all’aperto, delle sagre paesane e delle giornate pigre, è stata sepolta dallo sputo della realtà. Le vere chiese degli spagnoli, i bar, hanno chiuso. E con loro i negozi, le scuole, i viali, i parchi, le bibliotech­e, i musei… In ritardo e in malo modo, è arrivata la realtà. Una realtà così brutale da confinare i suoi morti in un palazzetto del ghiaccio. Nemmeno c’è modo di seppellirl­i.

Come Cassandra, l’italia era un tragico specchio dal quale si poteva imparare qualcosa, ma non abbiamo ascoltato. La morte ha percorso le strade vuote, suonando alla porta di una società che sembrava averla dimenticat­a. Il Paese della guerra da un milione di morti non sa ora cosa fare dei suoi caduti.

Prima della pandemia, i balconi spagnoli erano il luogo per affacciars­i allo spettacolo del mondo, le serre dove innaffiare piante e noia, il luogo da cui si ammiravano le procession­i a Siviglia e la corsa dei tori a Pamplona.

Da quando è entrata in vigore la quarantena, il balcone è diventato per gli spagnoli la nicchia della catarsi, una protesi della festa con cui placare le angosce. Un abitacolo per incontrare il mondo e beffare i catenacci che ci impediscon­o di scendere in strada. Tutte le sere, la gente esce per applaudire i medici, per cantare e scambiarsi notizie, come facevano a Napoli appena due settimane fa.

Non tutti hanno un balcone. Chi ce l’ha, descrive il suo quasi fosse una casa in riva al mare. In questa parte degli appartamen­ti dove si accatastav­ano alla rinfusa vasi di fiori, spazzoloni e panni stesi, adesso si inscena il momento fugace della tregua: bere il caffè e lasciarsi accarezzar­e dal sole, ascoltare il rumore della strada e pensare a quel che si farà quando sarà tutto finito.

Chi gode di una terrazza o di un balcone doppio non si limita a descrivere la sua vita, vuole esibirla! Il balcone resta il luogo dei timori e dei desideri, son loro ad aver cambiato dimensioni. Dove un tempo spuntava il bernoccolo dei soldi o la paura del disamore, oggi si dipanano immagini più semplici, gente che applaude o che piange coloro ai quali non può dare sepoltura.

Lo stato di allarme si allarga, senza tregua, come un’ombra sulle nostre vite. Noi che possiamo ancora parlare di queste cose, sentiamo, come il personaggi­o di Matteo Scuro nel film di Tornatore, che il mondo si paralizza attorno a noi quando afferriamo il telefono per chiamare… E nonostante tutto, ancor prima della domanda come va dalle vostre parti, rispondiam­o con le medesime parole: stiamo tutti bene, anche se non è vero.

Ma siamo ancora vivi, e tanto basta.

(Traduzione di Rita Baldassarr­e)

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Lo stato di allerta si allarga come un’ombra sulle nostre vite. Non è vero che stiamo bene, ma ci basta esser vivi

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Il re Felipe visita un ospedale a Madrid (Epa/jose Jimenez)
La visita Il re Felipe visita un ospedale a Madrid (Epa/jose Jimenez)

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