Il commissario indaga nell’eden di montagna. E scopre il male
Emilio Martini firma per Corbaccio una nuova avventura del vicequestore Gigi Berté, questa volta in vacanza in un paesino della Val Camonica
Segugio dall’opulento girovita, il vicequestore aggiunto — trasferito da Milano all’immaginaria Lungariva (ispirata a Santa Margherita Ligure) per motivi disciplinari — Gigi Berté lascia il golfo del Tigullio e sale, con raccapriccio appena dissimulato, ai 900 metri di Montenorbo (nella realtà: Borno), comune della Val Camonica ai piedi delle Prealpi Orobiche. Detesta la montagna. Ma la Marzia (adornata dell’articolo determinativo di rito ambrosiano), la sua compagna, ex soprano e albergatrice, non intende sentire ragioni: urge una vacanza che scrolli dai nervi i resimichela dui tossici delle ultime indagini.
L’ennesimo inganno: non esiste un altrove. Sotto la superficie pittoresca di quell’eden montano è rintanata da molti anni la bestia del male. Prima la morte di una creatura angelica (Celeste: nomen omen), poi una catena di tragedie stretta intorno a Villa Griffi, un maniero inquietante, tetro, quasi gotico. Berté si calerà nelle crepe di quell’ambiguo scenario — i pettegolezzi, le cicatrici, i rancori — e ne uscirà con una mezza vittoria. Ma dopo aver accompagnato il lettore in un viaggio (avvincente e lieve) di andata e ritorno alle radici del giallo.
In armonia con i precedenti casi della serie Berté (otto romanzi e alcuni racconti), le sorelle Elena e Martignoni, le autrici che si dedicano al poliziesco sotto lo pseudonimo di Emilio Martini, Il paese mormora — edito da Corbaccio — celebra con ammirevole perizia il ritorno al canone (via tutta la zavorra contemporanea: dalle lungaggini pseudoletterarie all’esondazione di emoglobina), ma con occhi che si sono posati, quanto meno, su Simenon. Le frequenti allusioni alla Christie culminano con la messa in scena della rivelazione: Berté ricostruisce
Sotto pseudonimo
Il nome di Martini cela quello di due sorelle
la vicenda di fronte ai personaggi coinvolti, tutti sospettabili. Alla Poirot. Ma Berté ha un’autostima precaria ed è sprovvisto di mirabolanti «celluline grigie». Lui fiuta, s’immerge nelle memorie del sottosuolo, si lascia impregnare dall’atmosfera: vuole comprendere, prima di giudicare. Alla Maigret.
Ma il tributo-tradimento del canone è nello sconsolato epilogo del caso. Meglio: del doppio caso. La ragione non è invincibile, la logica non scioglie tutti gli enigmi, la vita ha dei lampi imponderabili di fronte ai quali bisogna chinare la testa. E sono queste sorprese che ci rendono (pagina 207) «splendidamente umani».