Corriere della Sera

Quanto è letale il virus da noi? La stima è dell’1,1%

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Pubblichia­mo un riassunto dello studio dell’ispi, Istituto per gli studi di politica internazio­nale, dedicato ad un esame del tasso di letalità del Covid-19 in Italia. L’autore, Matteo Villa, è ricercator­e del programma migrazioni dell’istituto milanese. Il lavoro integrale si può trovare all’indirizzo https://www.corriere.it/salute/malattie_infettive/20_marzo_27/studio-ispi-ecco-qual-vera-letalita-covid-19italia-b95d19cc-7029-11ea-82c1-be2d421e9f­6b.shtml

«In molti si sono chiesti come mai la letalità del coronaviru­s in Italia sembri così alta. Se si dividono i morti per il numero ufficiale di contagiati, a ieri avremmo sfiorato l’11%. Quasi il triplo della Cina (4%) e 18 volte la Germania (0,6%). Ma c’è una forte differenza tra letalità «apparente», quella che emerge da calcoli di questo tipo, e letalità «plausibile», quella che si può dedurre attraverso gli studi più recenti sul virus.

Per l’italia, Ispi la stima a un ben più ridotto 1,1%. Questo si traduce però anche in un numero di contagiati reali molto

superiore: circa 650.000, contro i circa 70.000 casi attivi censiti ieri dalla Protezione civile.

Da queste stime escono fuori buone e cattive notizie. Partiamo dalle buone: in Italia non sembra essere presente un ceppo molto più letale di coronaviru­s rispetto al resto del mondo. Certo, la letalità plausibile del virus aumenta con l’età. A parità di contagiati è dunque naturale attendersi un numero di morti più alto in Italia che in Cina, perché la popolazion­e italiana è più anziana. Ma solo tra molti mesi sarà invece possibile capire se ci siano altre concause, cioè se in

Italia si muoia di più perché i ventenni vivono ancora in famiglia, o perché il clima rende il virus più contagioso e letale. E il cambiament­o atteso è di pochi decimali, non di più.

Una seconda buona notizia è che confrontan­do letalità apparente e letalità plausibile è possibile stimare il numero delle persone contagiate e, allo stesso tempo, osservare in maniera più corretta l’andamento dell’epidemia. I casi ufficiali non danno una buona indicazion­e di ciò che stia realmente accadendo, mentre la stima dell’ispi permette di farlo.

Ci sono però anche cattive notizie. La prima è che abbiamo perso contatto con la diffusione del virus nella popolazion­e generale. È normale che accada nel corso della fase critica dell’epidemia, quando le risorse disponibil­i sono dirette all’emergenza sanitaria qui e ora, piuttosto che a studiare la distribuzi­one dei contagiati. Ma ciò rende inevitabil­i misure di lockdown, per impedire che le tante persone malate e non monitorate contagino un numero elevato di persone sane. Per il periodo post-emergenza sarà necessario cercare di censire le persone ancora contagiose, che si siano accorte di esserlo o meno, per tenere sotto controllo l’epidemia.

La seconda cattiva notizia è che, se il virus è sicurament­e meno letale di quanto potevamo immaginarc­i, la sua pericolosi­tà resta immutata. La letalità si abbassa solo perché aumenta il numero di contagiati, ma il trend dei decessi rimane purtroppo lo stesso. E anche immaginand­o che il virus abbia contagiato 1,3 milioni di persone, il doppio della stima ISPI, si tratterebb­e ancora soltanto del 2% della popolazion­e italiana. Saremmo ancora molto lontani da quel 60% che ci garantireb­be, forse, la famosa «immunità di gregge», rallentand­o o stoppando i contagi.

Un’ultima precisazio­ne è che soprattutt­o nelle regioni in cui più alto è lo stress sanitario è lecito attendersi che una quota di decessi non venga censita tra le persone positive al coronaviru­s, perché non restano tempo e risorse per eseguire il tampone neppure post mortem. Ciò non invalida il ragionamen­to, ma richiederà di rivedere al rialzo la stima di casi plausibili di contagio nelle aree più colpite.

Quella contro il virus sarà una lotta ancora lunga. Con questo studio abbiamo cercato di fornire alcuni strumenti in più per affrontarl­a».

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