I medici non sottoposti a tampone «Una scelta con effetti catastrofici»
MILANO «Mia moglie è malata. Fino a due giorni fa abbiamo dormito insieme». «Questo non implica che lei stia a casa». «Non è un sospetto, è arrivato il tampone, è positiva». «Venga lo stesso in ospedale».
Non serve citare in che struttura sanitaria ha avuto luogo questo dialogo telefonico tra un chirurgo e il suo responsabile. Perché è avvenuto in decine di ospedali lombardi. E non perché i direttori sanitari siano stati (solo) incoscienti: ma perché era quello che dice la legge. Anche per questo (oltre alla carenza di protezioni e alla mancanza di protocolli per affrontare una pandemia) gli ospedali «sono diventati il principale vettore di diffusione del contagio», come hanno scritto 13 medici del «Papa Giovanni XXIII» di Bergamo in un articolo sul New England journal of medicine. Se fare più o meno tamponi alla popolazione è oggetto di dibattito, «non aver fatto le analisi e un attento tracciamento dei contatti per il personale sanitario è stato inspiegabile ed ha avuto effetti catastrofici», confermano al Corriere una decina di medici milanesi, che non possono apparire con nome e cognome perché in questi giorni la comunicazione è stata blindata.
Il primo medico contagiato a Milano è stato un dermatologo del «Policlinico» (attenl’effettuazione zione ai tempi, siamo a febbraio, poco dopo Codogno). Reazione immediata: tampone (esito positivo), dunque quarantena (medico isolato) e tracing (analisi dei contatti con tampone: due specializzandi positivi restano a casa, due negativi continuano a lavorare). Era l’obiettivo all’inizio dell’epidemia: circoscrivere e bloccare i focolai, soprattutto dentro gli ospedali.
Il 10 marzo, però, tutte le strutture sanitarie lombarde recepiscono le indicazioni che arrivano da Roma: «Per l’operatore asintomatico che ha assistito un caso probabile o confermato di Covid-19» senza adeguate protezioni, «o l’operatore che ha avuto un contatto stretto in ambito extra lavorativo, non è indicata del tampone». E poi: «In assenza di sintomi non è prevista l’interruzione dal lavoro». Medici e infermieri ad altissimo rischio, dunque, hanno così continuato a lavorare con la sola mascherina chirurgica, e senza alcun accertamento per capire se fossero malati. Molti, dopo giorni, si sono ammalati davvero. «Sono andata al lavoro e mi sono sentita una terrorista che poteva spargere il virus nel mio ospedale», afferma in lacrime un’infermiera. Se si aggiunge a questo la disastrosa carenza di mascherine e protezioni, si comprende meglio la cifra stratosferica di oltre 6.400 sanitari infettati (fonte: Federazione nazionale ordini dei medici). I sindacati stanno facendo una battaglia durissima per chiedere tamponi a medici e infermieri. E ieri anche le organizzazioni dei professionisti sanitari di tutta Europa, in una nota unitaria, hanno chiesto: «Il personale deve essere dotato di dispositivi di protezione individuale e deve essere regolarmente testato, indipendentemente dai sintomi o dall’esposizione segnalati».
L’ultima direttiva della Regione Lombardia (23 marzo) stabilisce che a inizio turno il personale sanitario debba provare o autocertificare la temperatura. Oltre i 37,5, si ha «diritto» al tampone. Dunque, quando arriva la febbre: e il medico o l’infermiere possono aver già diffuso l’infezione per giorni. 1
Il paziente deve inclinare il capo