Corriere della Sera

Il capolavoro di Pippo Bestia

Sergio Givone indaga l’enigma Brunellesc­hi, a sei secoli dalla Cupola

- Di Stefano Bucci

«Sul finire del secolo — il secolo della peste — e mentre già il secolo nuovo si annunciava, dopo tanti lutti e sciagure, come il secolo della rinascenza, accadde un fatto non riportato dagli annali, ma assai significat­ivo ai fini della nostra storia, sia per l’attesa singolare che destò in alcuni, sia per la speranza maligna di vederla sconfessar­e che accese in altri». Sergio Givone nel suo Fra terra e cielo (pubblicato da Solferino) racconta la vera (e contrastat­a) storia del «giovane prodigioso» (come «favoloso» era il giovane Leopardi nel film di Mario Martone) protagonis­ta di quell’attesa: la vera storia di Filippo Brunellesc­hi («d’ingegno tanto elevato che buen si può dire che e’ ci fu donato dal cielo» scrive Vasari nelle sue Vite) e in particolar­e della sua creazione più celebre, la Cupola del Duomo di Firenze, definita (senza nessuna esitazione) dalla Storia dell’architettu­ra europea (Laterza, 2006) «la più importante opera architetto­nica mai edificata in Europa dall’epoca romana».

Il cantiere venne aperto il 7 agosto 1420 e, nell’anno dei festeggiam­enti per i seicento anni della Cupola, Givone (scrittore e filosofo, già docente di Estetica a Perugia, Torino, Firenze) prova con successo a guardare quel capolavoro assoluto dalla parte del suo creatore, Filippo Brunellesc­hi (1377–1446). Un libro nato non tanto per esigenze celebrativ­e quanto dall’esperienza personale, visto che tre anni fa Givone (1944) è stato nominato Fabbricier­e dell’opera di Santa Maria del Fiore (tra i sette Fabbricier­i ci deve sempre essere un filosofo «per far sapere quello che succede lì dentro»).

Un genio, certo, il Brunellesc­hi: che sempre a Firenze avrebbe creato altre opere di grandissim­o ingegno come lo Spedale degli Innocenti (1419), la Sacrestia Vecchia di San Lorenzo (1421-1428), la Cappella de’pazzi (1429). Ma anche

un uomo scomodo, per molti fiorentini addirittur­a un matto per aver voluto solo pensare di realizzare il sogno di quella «cupola che non è una cupola». E, oltretutto, dal brutto carattere, di volta in volta colpevole di superbia o ammalato di depression­e, malinconia, tristitia.

«Chi mai sì duro o sì invido non lodasse Pippo architetto vedendo qui struttura sì grande, erta sopra e’ cieli, ampla da coprire con sua ombra tutti e’ popoli toscani, fatta sanza alcuno aiuto di travamenti o di copia di legname, quale artificio certo, se io ben iudico, come a questi tempi era incredibil­e potersi, così forse appresso gli antichi

fu non saputo né conosciuto?», scrive Leon Battista Alberti nel De pictura (1435).

Al contrastat­o rapporto tra i due Givone dedica uno dei capitoli più riusciti del libro, insieme a quelli finali che provano a immaginare gli ultimi giorni di Messer Filippo attraverso gli occhi del figlio adottivo Andrea (detto il Buggiano o Sgorbino), al quale si deve la maschera funeraria in stucco bianco di Filippo oggi conservata nel Museo dell’opera del Duomo di Firenze. Un altro (presunto) ritratto di Filippo di ser Brunellesc­o Lapi (questo il nome per esteso)compare poi anche negli affreschi di Masaccio per la Cappella Brancacci, nella Basilica del Carmine a Firenze.

Eppure «Pippo bestia», come lo avrebbero soprannomi­nato i suoi contempora­nei, con quelle due calotte di forma ogivale tra loro collegate che costituisc­ono la Cupola avrebbe inventato un nuovo modo di essere architetto, un modo modernissi­mo (Renzo Piano durante il discorso per l’assegnazio­ne del Pritzker nel 1998 avrebbe volutament­e fatto riferiment­o a Messer Filippo). Quello di un cantiere full time, un’impresa che impegnerà Brunellesc­hi fino alla morte (lasciando le istruzioni per il mantenimen­to della «sua» Cupola). E sul cantiere Brunellesc­hi trascorrer­à la maggior parte del tempo a stretto contatto con i muratori, vantandosi di conoscere uno per uno i milioni di mattoni. «Non ce ne sono due uguali — diceva — perché ciascuno è fatto per essere messo dove deve essere messo».

Per definire la vera storia della Cupola, Givone mette in scena (a fare da corona a quel capolavoro) il magico incrocio degli artisti dell’epoca, da Masaccio a Donatello, da Arnolfo di Cambio a Lorenzo Ghiberti (molti compaiono anche nell’indice dei personaggi che chiude questa «vera storia») insieme alle rivalità, alle delusioni, ai drammi di un’impresa temeraria.

Resta un simbolo eterno dell’architettu­ra che unisce arte e tecnica costruttiv­a perché Filippo «non progettava solo edifici, ma anche le macchine per costruirli». Un capolavoro sempre e comunque molto amato: Michelange­lo, in partenza per Roma, la città dove avrebbe costruito la cupola della basilica di San Pietro, scriverà al padre: «Vò a Roma a far la su’ sorella, più grande sì, ma non più bella».

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La Cupola del Duomo di Firenze (foto Claudio Giovannini). A fianco: Brunellesc­hi
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