In prima linea
La fatica, la sofferenza, il coraggio Negli occhi di medici e infermieri c’è il senso della loro missione «Questo ci resterà per sempre»
Occhi marroni, occhi neri, occhi verdi, occhi blu. Occhi stanchi. Dai turni di otto, dieci, dodici ore. Senza bere, senza andare in bagno, senza sbagliare. Occhi di infermieri, di medici, di oncologi, di primari, di virologi, di impiegati. Salvano i pazienti con i respiratori e con l’ossigeno. Li salvano trasformandosi in figli, in nipoti, in padri, in madri. E quando devono arrendersi, perché neanche loro riescono a salvarli, allora li lasciano andare. E si sentono sconfitti.
Quelli a destra sono i loro ritratti, fatti dai fotografi dell’ap Luca Bruni, Domenico Stinellis e Antonio Calanni, che sono andati a incontrare medici e infermieri degli Spedali Civili di Brescia, dell’istituto Clinico Casalpalocco di
Roma e dell’ospedale Humanitas Gavazzeni di Bergamo. Questi scatti hanno fermato la loro stanchezza, la loro impotenza, il loro dolore. «Quello che stiamo vivendo è come un tatuaggio, ci resterà per sempre», ha detto Daniela Turno, 34 anni, infermiera della terapia intensiva dell’humanitas di Bergamo. «Sappiamo che la maggior parte sono pazienti anziani: hanno bisogno di tenerezza, di vicinanza», ha raccontato Gabriele Tomasoni, primario di anestesia e rianimazione agli Spedali civili di Brescia.
Non si possono fermare, gli infermieri e i medici, quelli che continuano ad andare ogni giorno in reparto con mansioni diverse, stando attenti a come indossare e togliere i guanti e le mascherine per non commettere l’errore che li farà ammalare. Finora 7.100 operatori sanitari sono stati contagiati dal virus. Cinquantuno medici sono morti.
Eppure i loro colleghi continuano a lavorare, non indietreggiano di un centimetro. E hanno occhi sempre più tristi.