Il piano pop della classica
Il personaggio Il compositore inglese di origini giamaicane e il nuovo album Alexis Ffrench: «La musica tradizionale diventi sexy Per me non c’è differenza tra Bach e Stevie Wonder»
«Se la classica vuole sopravvivere deve imparare dall’hip hop» sostiene Alexis Ffrench, compositore e pianista inglese d’origine giamaicana. E rincalza: «Tra Bach e Stevie Wonder per me non c’è differenza. Entrambi fanno parte dello stesso universo musicale in cui mi muovo».
Lo dice per provocare?
«Lo dico perché è la mia storia. Avevo 4 anni quando, ascoltando Stevie Wonder, il cantante preferito di mio padre, ho provato a imitarlo “suonando” il tavolo della cucina come fosse un pianoforte. Continuavo a mettere quel disco, a battere le dita sul tavolo, finché i miei genitori, stufi di quel ticchettio, mi comprarono un piano. A 7 anni suonavo l’organo nella chiesa del mio quartiere nel Surrey; a 10 ho vinto una borsa di studio e ho iniziato il mio percorso musicale, prima alla Purcell School poi alla Royal Academy».
Formazione classica di rigore...
«Strettamente. Ma in parallelo ho coltivato l’ascolto di tutto quello che avveniva intorno a me. E non parlo solo di musica, ma proprio dei suoni del mondo, pittura, letteratura. Questa seconda strada è stata importante quanto quella didattica. Ogni artista dovrebbe a mio parere seguire entrambi i percorsi. E così la mia colonna sonora comprende Bob Marley e Chopin, Rachmaninov, Arvo Pärt, Kendrick Lamar…».
Pianista, poi compositore. Di una musica di gradevole ascolto che come referenti ha Ludovico Einaudi e Michael Nyman. Il termine melodica la irrita?
«Più che altro irrita i cultori della classica! Io non ci vedo nulla di male, anzi. La gradevolezza fa parte dell’ascolto, mi sembra che ne abbiamo gran bisogno, specie di questi tempi. Il mio nuovo album,
Dreamland (da venerdì distribuito nel mondo da Sony) invita a sognare fin dal titolo, è musica libera, senza barriere, popolare nel miglior senso del termine. Come ai tempi di Mozart e Beethoven».
Ma alla fine cosa distingue la classica dagli altri generi?
«Le gerarchie sono fittizie.
Quel che è certo è che la classica, come la si intende usualmente, oggi è fuori dalla portata di molte classi sociali. Anzi viene usata per mantenere una selezione di classe. Il movimento europeo chiamato neo-classico a cui io appartengo, unito alla diffusione capillare dello streaming, cerca di ridisegnare i gusti fondendo i paesaggi della classica con quelli degli altri generi. Perché se la classica vuole sopravvivere deve uscire dalla sua nicchia, innovarsi, diventare sexy».
Quali intrecci si possono stabilire tra generi così diversi?
«Tecnicamente pochi, ma sul fronte ideologico e filosofico si possono scoprire relazioni forti. Su questo fronte, credo che classica e hip hop siano molto affini. Se si guarda ai celebri “sovvertitori” della classica, penso a Beethoven, a Shostakovich, vediamo che le loro idee politiche, la loro visione della società, le loro opinioni senza compromessi, sono state una parte sostanziale della loro opera creativa. Quegli artisti ribelli di ieri trovano oggi il loro evidente riscontro in nomi come Childish Gambino o Tyler the Creator. I talenti del rap e dell’hip hop sono la realtà filosofica più vicina ai famosi compositori del passato».
d
Lo so, irrito i puristi ma l’ascolto deve essere libero e deve ritrovare la sua dimensione popolare come ai tempi di Mozart e Beethoven
Quanto contano i social nella diffusione della classica?
«Sono essenziali. Il mio album precedente, Evolution, ha conquistato cento milioni di ascolti in streaming e in cinquanta milioni hanno seguito il mio concerto alla Royal Albert Hall…».
Ai live si presenta in cappello nero in testa, magliette e giacche poco convenzionali per un artista classico.
«Mi piacciono i vestiti e mi piace esprimermi attraverso il linguaggio della moda. Di certo preferisco uno stilista come Miyake a qualsiasi smoking».
Lei è un raro caso di pianista e compositore «black». Come si spiega che ce ne siano così pochi?
«È vero, la classica ha sempre contato pochissimi artisti di colore. Ma più che un’attitudine culturale, penso che si tratti di un problema di mancanza di opportunità. Quanto a me, da ragazzo i miei idoli erano Glenn Gould e Wynton Marsalis, Mozart di Salisburgo e lo Chevalier di Saint-georges, detto il Mozart nero per la sua pelle scura. Ero un ragazzo di colore cieco ai colori».