IL FUTURO PROSSIMO NON PUÒ RESTARE UN ENIGMA
La prospettiva di un Paese sigillato ermeticamente a lungo è irrealistica e dannosa almeno quanto quella di un Paese fermo. È questo il momento di decidere
Gli occhi sono tutti puntati in alto, verso il picco dei contagi, e noi sembriamo incapaci di sollevarci sulle punte per vedere più in là. Quel che è peggio: le nostre istituzioni non stanno spingendo lo sguardo abbastanza oltre.
Con il passare dei giorni il baricentro della responsabilità è stato spostato in varie direzioni, tutte lontane dall’esecutivo: a livello sanitario, sulla tenuta strenua del personale e sulle iniziative delle singole regioni; a livello di diffusione dell’epidemia, sulla condotta più o meno adeguata dei cittadini. Abbiamo sottolineato proprio qui l’importanza del distanziamento sociale e insistiamo ancora di più adesso sulla necessità di mantenerlo, ma mentre noi restiamo buoni e reclusi qualcudella no dovrebbe chiarirci le regole della fase successiva.
Non significa pretendere di sapere con precisione quando succederà cosa. La data di scadenza della crisi, purtroppo, non è nelle mani di nessuno. La nostra capacità previsionale è molto più ridotta di così, soprattutto considerato che gli infetti ufficiali sono solo una frazione di quelli veri. Di sicuro, attendere che i positivi si riducano a zero sull’intero territorio potrebbe significare il prolungamento di questa paralisi per mesi, con danni socioeconomici (oltre che psicologici) impossibili anche solo da quantificare. La «riapertura», anzi le riaperture dovranno quindi avvenire in itinere, in qualche punto della curva nazionale dei contagi, o delle singole curve regionali. Ma in quale punto? Cosa dobbiamo aspettare e perché? E quanto è attendibile un grafico che tiene conto forse di un decimo della reale popolazione infetta?
Anche immaginando di portare gli incrementi giornalieri vicino allo zero, si porrà poi il problema delle nuove minacce di epidemia provenienti dalle linee di trasmissione carsiche, oppure dall’estero. La prospettiva di un Paese sigillato ermeticamente a lungo è irrealistica e dannosa almeno quanto quella di un Paese fermo. Come verrà gestito il traffico umano in quel dopo-che-è-già-adesso? Quali protocolli verranno applicati negli aeroporti, nelle stazioni, negli alberghi e di quali risorse abbiamo bisogno per implementarli?
Ogni riapertura, infine, dipende non solo da quanto la curva si abbassa, ma dalla sua capacità viscida di riprendere a crescere in qualsiasi momento e ovunque. La Corea del Sud, un modello probabilmente non replicabile identico da noi, né auspicabile, rappresenta almeno una guida: c’insegna che il rilassamento delle restrizioni può avvenire solo con uno sviluppo conseguente del tracciamento e del testing. Tracciamento e testing saranno con ogni probabilità la compagnia poco gradita nella nostra nuova normalità condizionata. Fingiamo che sia già estate e non ci siano più contagi ufficiali in Italia, o che si siano ridotti a una manciata. Noi siamo di nuovo liberi di andare in giro, magari con qualche accortezza in più del solito. Una mattina inizio ad avere una tosse strana, vengo testato e risulto positivo. All’istante sono analizzati i miei movimenti e contatti degli ultimi giorni, ogni persona coinvolta è messa in guardia e forse testata. Dai segnali inviati dal mio telefono salta fuori che sono stato anche in un bar particolarmente affollato. Anche per gli altri presenti nel bar alla stessa ora scattano test e misure di quarantena. Diventando virali a nostra volta e correndo più velocemente del virus, si può staccare il grappolo di nuovi contagi prima che infetti il resto della comunità.
Sembra un’impresa enorme, e infatti lo è, ma soprattutto se non s’inizia a prepararla per tempo e su presupposti chiari. Se fossimo molto assennati, già da un mese segneremmo su un taccuino il nome e il numero di telefono delle persone con cui abbiamo anche il minimo scambio, per poter consegnare quel taccuino agli investigatori in caso di contagio. In assenza di una disciplina simile, la tecnologia può farlo al posto nostro. Ma a che punto è quella tecnologia qui da noi? Che copertura può raggiungere? E cosa ne sarà mole di dati sensibili raccolti per una giusta causa? Nulla di tutto ciò dipende dall’andamento dei numeri che ci vengono comunicati quotidianamente.
La nostra capacità di testing, al contrario, è cruciale sotto ogni aspetto. «Tamponi a tappeto» è un’espressione infelice che evoca un approccio indiscriminato e dispersivo. D’altra parte, testare solo le persone con sintomi si è dimostrato insufficiente, e lo sarà ancora di più quando torneremo a camminare per strada e sarà necessario individuare prontamente ogni potenziale focolaio per spegnerlo sul nascere. Qual è la strategia virtuosa e sostenibile tra questi due estremi? A quanti tamponi giornalieri possiamo arrivare, dove e in quanto tempo? Sfrutteremo le capacità dei laboratori privati per aumentarli, e se no perché? Useremo i test sierologici, a partire da quando, e se no perché? Per quanti lavoratori saranno disponibili le mascherine e gli altri presidi di sicurezza e, di nuovo, entro quanto tempo?
La Harvard Business Review ha sottolineato, prendendoci a esempio, «l’importanza di approcci sistematici e i pericoli delle soluzioni parziali». Ma al primo aprile, quaranta giorni dopo l’inizio ufficiale del contagio in Italia, le singole regioni scelgono ancora autonomamente come comportarsi per i tamponi, con la Lombardia e il Veneto, confinanti e simili, che adottano strategie diverse. Com’è pensabile, date queste premesse, che un protocollo valido in tutto il territorio venga approvato e messo in moto da qui al 18 aprile?non vedo come possano essere anche solo congetturate delle riaperture senza prima una risposta a ognuno di questi quesiti. Se le risposte esistono già, o se almeno esistono delle ipotesi concrete di lavoro, che ci vengano illustrate. La conferenza stampa delle 18, la nostra nuova lugubre occasione di raccoglimento, si presterebbe bene a mostrarci a che punto sono i cantieri. Una linea di fuga in avanti avrebbe, tra l’altro, un effetto incoraggiante diverso dall’ostensione glaciale dei numeri. Quando il picco sarà oltrepassato, perderanno in molti la motivazione per restare isolati e servirà una tabella di marcia da completare, anzi serve già.
Il nostro futuro prossimo non può essere una scatola nera, né possiamo permetterci di aprire quella scatola e scoprire di averci messo dentro degli oggetti alla rinfusa. Perciò qualcuno smetta di fissare il picco, adesso, e ci parli con precisione di cosa ci aspetta quando attraverseremo finalmente la soglia di casa.
Come verrà gestito il traffico umano in quel dopoche-è-giàadesso? Quali protocolli applicati e di quali risorse abbiamo bisogno?