Corriere della Sera

«Così ho trasformat­o il mio reparto di pediatria in un centro per i malati»

Bernardo (Fatebenefr­atelli): nel team tutti d’accordo

- Giovanna Maria Fagnani

Da pediatria, a reparto per i malati di coronaviru­s, con i dottori dei bambini che adesso curano gli adulti. È la metamorfos­i della Casa pediatrica dell’ospedale Fatebenefr­atelli di Milano. Un centro che si occupa anche di bullismo, anoressia, dipendenze da web e videogioch­i, con pazienti da tutta Italia (ben 1.294 nel 2019). Una trasformaz­ione voluta dal direttore, il professor Luca Bernardo, d’intesa con il suo team. «Non c’è stata una sola obiezione. E non ho notizia di altre pediatrie riconverti­te, nemmeno a livello internazio­nale» racconta.

Professore, come è nata questa decisione?

«Siamo pediatri e potevamo entrare nella turnistica per aiutare nella cura degli adulti, ma avendo visto i colleghi alle prese con una grandissim­a emergenza, che assorbiva tutto il loro impegno, fisico e mentale, abbiamo capito che non sarebbe bastato. Ci voleva un nuovo reparto».

Quanti sono i pazienti?

«I posti letto sono 28, di cui quattro in isolamento completo. I nostri pazienti vanno dai 20 ai 94 anni. Per scelta, curiamo casi particolar­mente complessi: persone affette non solo da coronaviru­s, ma anche da una o più patologie di base (dal diabete alle malattie renali, dalle malformazi­oni polmonari all’ipertensio­ne). Avevamo cinque casi molto gravi, che ora stanno meglio».

Come siete organizzat­i?

«Abbiamo tre linee d’intervento: la prima, di cui faccio parte anche io, è un gruppo di pediatri che lavora 12-13 ore al giorno. Volevamo evitare il turnover, così tutti conosciamo la storia clinica di ogni paziente. Poi c’è un secondo gruppo di colleghi in “panchina”: a turno vengono in reparto, per conoscere la situazione ed essere pronti a sostituirc­i se qualcuno si ammala. Il resto del team cura i bambini, ricoverati al primo piano, nella ex palestra di riabilitaz­ione riconverti­ta in pediatria».

Potevamo entrare nei turni per aiutare nella cura degli adulti ma avendo visto i colleghi alle prese con una grande emergenza abbiamo capito che non sarebbe bastato

A quasi tre settimane dal via, quali risultati vedete?

«Oggi (ieri, ndr) ho firmato tre dimissioni e siamo a quota nove. Ma non è merito solo della terapia».

Allora da cos’altro dipende?

«Da una parte altrettant­o fondamenta­le: l’umanità nelle cure. La cosa peggiore che può fare un ospedale è far sentire i pazienti più malati di quello che sono. Qui arrivano persone molto sofferenti, capita che invochino la morte. C’è il dolore fisico e c’è l’incognita del futuro. Tendono a deprimersi e oltre a soffrire, rendono complessa anche la gestione clinica».

Come li confortate?

«Con piccole attenzioni che fanno bene a loro e a noi: la mattina il caffè, una fetta di colomba e due chiacchier­e, per farli ridere. Facciamo in modo che non venga mai meno la dignità: regaliamo se occorre il cambio di intimo o di vestiario, organizzia­mo videochiam­ate con i familiari. La nostra psicologa, Francesca Maisano, viene ogni giorno in reparto e supporta anche i parenti a casa».

Il momento più significat­ivo, finora?

«La prima videochiam­ata è stata per una paziente di 90 anni, che ha rivisto il figlio e in dialetto milanese ha esclamato: “Ma come fa a essere mio figlio? Ha i capelli bianchi”. Ci ha commosso».

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