Perché non ci servono eroi
Attenzione alla retorica degli angeli. Ci vogliono razionalità e una politica più seria
Sul portone qualcuno ha lasciato un cartello scritto a mano: «Grazie agli eroi di questo palazzo». All’ultimo piano, infatti, abita un infermiere e un’altra credo che viva nella scala a fianco. Uno dei due, il giorno dopo, ne ha attaccato un altro, scritto al computer in caratteri molto grandi: «Non siamo eroi, siamo operatori sanitari e ci pagano male». Mentre salivo le scale coi sacchi della spesa (l’ascensore è ormai un retaggio del passato) ho pensato a quella risposta e mi è venuto in mente Nuto Revelli. Non c’era occasione in cui lo scrittore, reduce dalla campagna di Russia e poi partigiano nel Cuneese, non mettesse in guardia dal rischio di mitizzazione e santificazione della Resistenza. Dare dell’eroe, sosteneva, significa lavarsi le mani, favorire la legittimazione del disinteresse, delegare le battaglie a chi si crede che possieda più forze di noi e, soprattutto, significa non indagare le ragioni per cui quelle battaglie sono nate. Insomma, mitizzare serve a guardare gli eventi come fossero meteoriti che fatalmente precipitano in un punto a caso dell’universo. E lo stesso vale per le celebrazioni. Quando attaccano la grancassa e si dispongono le parate, continuava Nuto, è sistematico che quel fatto, quel periodo, quell’evento vengano archiviati e che il filo che li collega al presente venga reciso per sempre. Revelli, libro dopo libro, incontro dopo incontro, intervista dopo intervista, ha combattuto tutti quegli atteggiamenti emotivi che rendono un Paese eternamente immaturo e rassegnato di fronte agli accadimenti, prevedibili e imprevedibili.
Ecco perché le retoriche dell’eroismo, insieme a quelle più grossolane per cui dal dolore si impara, per cui la tragedia insegna, secondo le quali la malattia svela misteri e sensi reconditi, le trovo respingenti. Particolarmente da qui — abito dietro l’ospedale Sacco, convivo col suono delle sirene delle ambulanze notte e giorno — tutto questo suona non solo stonato, ma fastidiosamente stridente perché finisce per gambizzare la prospettiva scientifico-razionale. Nel terremoto del 2009 avevamo «gli angeli», i pompieri che scavavano tra le macerie insieme ai volontari che si erano aggregati per dare una mano, corrispettivo dei medici venuti dall’albania (quelli che la Lega oggi ringrazia, mentre prima sosteneva che «un voto in più a noi, un albanese in meno a Milano») o di quegli altri in pensione che hanno rimesso il camice e sono tornati in corsia rischiando la loro stessa vita. È sano accontentarsi degli angeli e degli eroi? È sufficiente farsi bastare quello che i greci chiamavano mythos? Credo di no. Penso, invece, che sia indispensabile, oggi più che mai, mantenersi saldamente attaccati alla dimensione del logos, dell’indagine e della scienza, andare sempre a cercare cause e responsabilità, che a volte emergono, altre vanno faticosamente disseppellite.
C’è una parola, così diversa da quelle che ruotano intorno al campo semantico della consolazione immediata che, se seguita, conduce su una strada diversa, dalla quale si può osservare questa situazione per poi eventualmente tornare, con più consapevolezza, su questioni emotive ed esistenziali. «Dedurre» significa letteralmente «tirare giù», trarre concetti e conclusioni da specifici argomenti. Non è una parola del cuore, implica il ragionamento, la consequenzialità logica, il sillogismo, l’indagine scientifica della realtà. Insomma, è un atto della mente. Frequentare questa parola significherebbe imparare non come il virus ci stia rendendo persone migliori o peggiori — individui più o meno consci del «mal che ci fu dato in sorte/ E del basso stato e frale» — ma mettersi al tavolo e, dati alla mano, risalire alle cause e «tirare giù» le conseguenze dei fatti.
Certo, bisognerebbe poter rivolgere interrogazioni puntuali a chi ha preso decisioni, sarebbe obbligatorio ascoltare chi ha gestito concretamente l’emergenza, avere in mano documenti che non possiedo o a cui ho un accesso limitato. Per questo non ha senso, qui, elencare fatti precisi, perché sarebbero una selezione parziale e una scelta arbitraria. Mi sta a cuore, invece, fare una deduzione più generale. Eravamo abituati a ripetere, con i toni più vari, che una classe politica poco illuminata e di livello mediocre abbassi la qualità della vita, gonfi la burocrazia, mostri per contrasto come la competenza tecnica e l’esperienza sul campo siano fondamentali; ed eravamo abituati a ripetere come i mancati investimenti nella Sanità, nella Scuola, nella Ricerca intacchino il sistema, allontanando i giovani dalla politica, conducendo alla fuga delle menti più talentuose… La deduzione, alla luce della cronaca di questi lunghissimi giorni, compie un passaggio ulteriore, tanto chiaro quanto doloroso: simili mancanze seminano morte. Sia in tempi di pandemia sia in tempi di normalità, i tagli e la privatizzazione della Sanità, la mancanza di Educazione Civica, il disinvestimento nella Ricerca causano morte (le ultime cattedre di Virologia, come ha affermato il professor Giorgio Palù sul «Corriere», sono state istituite nel 1982 e il Veneto, non a caso, sta facendo scuola perché ha una tradizione consolidata in materia, si pensi all’istituto zooprofilattico sperimentale delle Venezie guidato da Ilaria Capua e selezionato dalla Commissione europea come laboratorio di riferimento per l’influenza aviaria).
Dovremmo ripeterlo: simili mancanze seminano morte. Accogliere e comprendere deduzioni di questo genere può condurre in maniera più lucida a rimarcare ciò che l’emotività presenta in modi confusi, facendoci toccare con mano il bisogno di comunità coese, solidali e meglio gestite. Prima di passare a una dimensione emotiva di angeli e di eroi sarebbe necessario ragionare sul fatto che la burocrazia, l’indecisione di chi governa e di chi amministra scelte di bilancio e manovre economiche, la mancanza di un’armonica dialettica Stato-regioni, in questi frangenti, hanno fatto un numero di morti difficile da conteggiare.
Ancora: dovremmo chiederci se in condizioni politiche migliori avremmo potuto avere non una assenza del contagio, perché non dipende da noi, ma una risposta migliore delle strutture sanitarie e, dunque, meno morte e meno sofferenza. Se disponiamo gli elementi come in un sillogismo aristotelico, vediamo che la mancanza di investimenti nella Sanità conduce alla mancanza di un posto letto, dunque può portare alla scelta dolorosa, scaricata violentemente sulle spalle dell’«eroe», di salvare una vita a discapito di un’altra e, dunque, alla morte. E per contare quelle morti non bastano i tamponi o gli esami diagnostici. In quel caso no, non c’è scienza possibile.
Voglio dire che finché non affronteremo la morte col logos, i fatti accaduti non potranno beneficiare davvero della consolazione del mythos — il racconto metaforico e la trasfigurazione di un evento — ma resteranno una tragedia mancata, fatta di metafore approssimative come angeli, eroi e capitani che affondano con le loro navi, o di improprie contestualizzazioni come il «siamo in guerra» e i medici sono «in trincea»: metafore alla buona che offuscano la richiesta di spiegazioni e l’indagine accurata delle cause, che in parte sono impreviste ma in parte no. Rifugiarsi in questa emotività zoppa, scissa dallo spirito analitico, dà accesso a una sacralità taroccata, che non appaga fino in fondo, ma che rischia di rivelarsi più che una vera e accorata preghiera, una posa che dietro di sé non lascia traccia.
Nuto Revelli metteva sempre in guardia dal rischio di santificazione della Resistenza