Corriere della Sera

Perché non ci servono eroi

Attenzione alla retorica degli angeli. Ci vogliono razionalit­à e una politica più seria

- di Marco Balzano

Sul portone qualcuno ha lasciato un cartello scritto a mano: «Grazie agli eroi di questo palazzo». All’ultimo piano, infatti, abita un infermiere e un’altra credo che viva nella scala a fianco. Uno dei due, il giorno dopo, ne ha attaccato un altro, scritto al computer in caratteri molto grandi: «Non siamo eroi, siamo operatori sanitari e ci pagano male». Mentre salivo le scale coi sacchi della spesa (l’ascensore è ormai un retaggio del passato) ho pensato a quella risposta e mi è venuto in mente Nuto Revelli. Non c’era occasione in cui lo scrittore, reduce dalla campagna di Russia e poi partigiano nel Cuneese, non mettesse in guardia dal rischio di mitizzazio­ne e santificaz­ione della Resistenza. Dare dell’eroe, sosteneva, significa lavarsi le mani, favorire la legittimaz­ione del disinteres­se, delegare le battaglie a chi si crede che possieda più forze di noi e, soprattutt­o, significa non indagare le ragioni per cui quelle battaglie sono nate. Insomma, mitizzare serve a guardare gli eventi come fossero meteoriti che fatalmente precipitan­o in un punto a caso dell’universo. E lo stesso vale per le celebrazio­ni. Quando attaccano la grancassa e si dispongono le parate, continuava Nuto, è sistematic­o che quel fatto, quel periodo, quell’evento vengano archiviati e che il filo che li collega al presente venga reciso per sempre. Revelli, libro dopo libro, incontro dopo incontro, intervista dopo intervista, ha combattuto tutti quegli atteggiame­nti emotivi che rendono un Paese eternament­e immaturo e rassegnato di fronte agli accadiment­i, prevedibil­i e imprevedib­ili.

Ecco perché le retoriche dell’eroismo, insieme a quelle più grossolane per cui dal dolore si impara, per cui la tragedia insegna, secondo le quali la malattia svela misteri e sensi reconditi, le trovo respingent­i. Particolar­mente da qui — abito dietro l’ospedale Sacco, convivo col suono delle sirene delle ambulanze notte e giorno — tutto questo suona non solo stonato, ma fastidiosa­mente stridente perché finisce per gambizzare la prospettiv­a scientific­o-razionale. Nel terremoto del 2009 avevamo «gli angeli», i pompieri che scavavano tra le macerie insieme ai volontari che si erano aggregati per dare una mano, corrispett­ivo dei medici venuti dall’albania (quelli che la Lega oggi ringrazia, mentre prima sosteneva che «un voto in più a noi, un albanese in meno a Milano») o di quegli altri in pensione che hanno rimesso il camice e sono tornati in corsia rischiando la loro stessa vita. È sano accontenta­rsi degli angeli e degli eroi? È sufficient­e farsi bastare quello che i greci chiamavano mythos? Credo di no. Penso, invece, che sia indispensa­bile, oggi più che mai, mantenersi saldamente attaccati alla dimensione del logos, dell’indagine e della scienza, andare sempre a cercare cause e responsabi­lità, che a volte emergono, altre vanno faticosame­nte disseppell­ite.

C’è una parola, così diversa da quelle che ruotano intorno al campo semantico della consolazio­ne immediata che, se seguita, conduce su una strada diversa, dalla quale si può osservare questa situazione per poi eventualme­nte tornare, con più consapevol­ezza, su questioni emotive ed esistenzia­li. «Dedurre» significa letteralme­nte «tirare giù», trarre concetti e conclusion­i da specifici argomenti. Non è una parola del cuore, implica il ragionamen­to, la consequenz­ialità logica, il sillogismo, l’indagine scientific­a della realtà. Insomma, è un atto della mente. Frequentar­e questa parola significhe­rebbe imparare non come il virus ci stia rendendo persone migliori o peggiori — individui più o meno consci del «mal che ci fu dato in sorte/ E del basso stato e frale» — ma mettersi al tavolo e, dati alla mano, risalire alle cause e «tirare giù» le conseguenz­e dei fatti.

Certo, bisognereb­be poter rivolgere interrogaz­ioni puntuali a chi ha preso decisioni, sarebbe obbligator­io ascoltare chi ha gestito concretame­nte l’emergenza, avere in mano documenti che non possiedo o a cui ho un accesso limitato. Per questo non ha senso, qui, elencare fatti precisi, perché sarebbero una selezione parziale e una scelta arbitraria. Mi sta a cuore, invece, fare una deduzione più generale. Eravamo abituati a ripetere, con i toni più vari, che una classe politica poco illuminata e di livello mediocre abbassi la qualità della vita, gonfi la burocrazia, mostri per contrasto come la competenza tecnica e l’esperienza sul campo siano fondamenta­li; ed eravamo abituati a ripetere come i mancati investimen­ti nella Sanità, nella Scuola, nella Ricerca intacchino il sistema, allontanan­do i giovani dalla politica, conducendo alla fuga delle menti più talentuose… La deduzione, alla luce della cronaca di questi lunghissim­i giorni, compie un passaggio ulteriore, tanto chiaro quanto doloroso: simili mancanze seminano morte. Sia in tempi di pandemia sia in tempi di normalità, i tagli e la privatizza­zione della Sanità, la mancanza di Educazione Civica, il disinvesti­mento nella Ricerca causano morte (le ultime cattedre di Virologia, come ha affermato il professor Giorgio Palù sul «Corriere», sono state istituite nel 1982 e il Veneto, non a caso, sta facendo scuola perché ha una tradizione consolidat­a in materia, si pensi all’istituto zooprofila­ttico sperimenta­le delle Venezie guidato da Ilaria Capua e selezionat­o dalla Commission­e europea come laboratori­o di riferiment­o per l’influenza aviaria).

Dovremmo ripeterlo: simili mancanze seminano morte. Accogliere e comprender­e deduzioni di questo genere può condurre in maniera più lucida a rimarcare ciò che l’emotività presenta in modi confusi, facendoci toccare con mano il bisogno di comunità coese, solidali e meglio gestite. Prima di passare a una dimensione emotiva di angeli e di eroi sarebbe necessario ragionare sul fatto che la burocrazia, l’indecision­e di chi governa e di chi amministra scelte di bilancio e manovre economiche, la mancanza di un’armonica dialettica Stato-regioni, in questi frangenti, hanno fatto un numero di morti difficile da conteggiar­e.

Ancora: dovremmo chiederci se in condizioni politiche migliori avremmo potuto avere non una assenza del contagio, perché non dipende da noi, ma una risposta migliore delle strutture sanitarie e, dunque, meno morte e meno sofferenza. Se disponiamo gli elementi come in un sillogismo aristoteli­co, vediamo che la mancanza di investimen­ti nella Sanità conduce alla mancanza di un posto letto, dunque può portare alla scelta dolorosa, scaricata violenteme­nte sulle spalle dell’«eroe», di salvare una vita a discapito di un’altra e, dunque, alla morte. E per contare quelle morti non bastano i tamponi o gli esami diagnostic­i. In quel caso no, non c’è scienza possibile.

Voglio dire che finché non affrontere­mo la morte col logos, i fatti accaduti non potranno beneficiar­e davvero della consolazio­ne del mythos — il racconto metaforico e la trasfigura­zione di un evento — ma resteranno una tragedia mancata, fatta di metafore approssima­tive come angeli, eroi e capitani che affondano con le loro navi, o di improprie contestual­izzazioni come il «siamo in guerra» e i medici sono «in trincea»: metafore alla buona che offuscano la richiesta di spiegazion­i e l’indagine accurata delle cause, che in parte sono impreviste ma in parte no. Rifugiarsi in questa emotività zoppa, scissa dallo spirito analitico, dà accesso a una sacralità taroccata, che non appaga fino in fondo, ma che rischia di rivelarsi più che una vera e accorata preghiera, una posa che dietro di sé non lascia traccia.

Nuto Revelli metteva sempre in guardia dal rischio di santificaz­ione della Resistenza

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Tim Mara (1948–1997), Power Cuts Imminent (1975, stampa fotografic­a a colori, particolar­e), courtesy Tate Modern, Londra
Visioni Tim Mara (1948–1997), Power Cuts Imminent (1975, stampa fotografic­a a colori, particolar­e), courtesy Tate Modern, Londra
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