Corriere della Sera

Un divieto non è un favore

SE UN DIVIETO SI TRASFORMA IN IMPLORAZIO­NE

- di Gian Antonio Stella

«Vi prego», «Vi imploro», «Vi supplico», «Vi scongiuro»... Diciamo la verità: è un sollievo vivere in un Paese lontano mille miglia dalle Filippine di Rodrigo Duterte, «El Castigador» che contro i cittadini insofferen­ti alla quarantena ha ringhiato: «I miei ordini a polizia e militari sono: se diventano turbolenti, si ribellano contro di voi e sentite che le vostre vite sono in pericolo, sparate e uccideteli».

E la stessa battuta di Vincenzo De Luca, «’O Castigator­e» della Campania («Se osate fare una festa di laurea vi mando i carabinier­i col lanciafiam­me») è insensata. Ma è mai possibile che una regola come quella sull’obbligo di restare a casa per proteggere se stessi e gli altri in questi tempi di pandemia, una regola serissima, obbligata e condivisa sostanzial­mente da tutti, debba essere addolcita con pennellate zuccherine?

Non si discutono, ovvio, gli appelli di tanti cittadini come Fiorello («Ragazzi, state a casa che è meglio») o Ornella Vanoni: «Vi scongiuro, state a casa. Mi viene da piangere, non so più cosa dire. Vedo gente al sole... Ma siete matti?».

Appelli benvenuti e utilissimi. Qualche perplessit­à però, ammettiamo­lo, sollevano altre invocazion­i. Giuseppe Conte: «Sono consapevol­e che restare in casa per lungo tempo non è semplice. Ma è un sacrificio minimo...». Attilio Fontana: «Vi chiedo questo sacrificio, mi rendo conto che sarà per voi difficile...».

Luca Zaia: «Vi prego, state in casa». Giuseppe Sala: «Vi prego, stiamo in casa e non vanifichia­mo il grande sforzo fatto fino ad oggi». Alberto Cirio: «Stiamo chiedendo un grande sforzo a ogni cittadino, ma vi prego di capire che è la scelta giusta». Domenico Arcuri: «Vi imploro: state a casa». Tutto giusto. Tutto saggio. Un filo di amarezza, però, resta. In un Paese serio con un problema serio basterebbe dire: «Non c’è scelta, è la legge». O no?

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