Corriere della Sera

IL PROMEMORIA PER BRUXELLES

- Di Franco Venturini

Gli italiani chiusi in casa da settimane, o che ancora combattono in ospedale, non meritavano questo: che i giorni più lunghi della Repubblica, invece dei loro, diventasse­ro quelli che ci separano dal Consiglio europeo del 23 aprile, quando si dovrebbe stabilire come e quanto faranno i nostri soci della Ue a favore dei Paesi più duramente colpiti dal coronaviru­s.

Saranno i giorni più lunghi del nostro Dopoguerra perché dall’appuntamen­to del 23 dipendono i futuri rapporti tra l’italia e l’europa, come dire il destino di entrambe. E lo saranno anche perché, con i mutamenti economici e geopolitic­i che una rottura potrebbe innescare, oltre alla nostra ripresa sarà in gioco la nostra democrazia, insidiata, ben più che dagli aiuti cinesi o russi, da chi in casa nostra passa con grande agilità dall’amore per Putin a quello per Trump, da chi vorrebbe «pieni poteri» e si allea volentieri con le ali estreme di populisti e sovranisti europei, compresi quelli olandesi che di questi tempi alimentano il «rigore» anti-italiano.

Giuseppe Conte sbaglia quando dice che l’opposizion­e di Salvini e quella della Meloni (Berlusconi e Tajani hanno seguito una linea molto più moderata dopo la riunione dell’eurogruppo) indebolirà la posizione italiana al vertice del 23. Semmai, le dure polemiche del dopo-eurogruppo sono servite da promemoria per gli altri governi della Ue, Germania in testa, e la posizione negoziale italiana potrà semmai avvantaggi­arsene. Ma questo non basterà se il premier non correggerà gli altri errori, per ora di forma, che egli stesso è andato delineando.

Al centro della contesa, come ormai ben sappiamo, sono i tanto sospirati eurobond. L’emissione cioè di debito comune garantito dall’europa e destinato al finanziame­nto massiccio (si calcola che servano 1.500 miliardi di euro) degli investimen­ti che dovranno combattere la scontata recessione economica del dopo-virus. Ma non si può dimenticar­e oggi che in passato il termine eurobond, sempre sollecitat­o dall’italia, veniva visto da parecchi altri membri dell’unione come una sorta di cavallo di Troia, una italica furbizia per far pagare anche agli altri il nostro pesantissi­mo debito pubblico, la nostra inefficaci­a nella lotta all’evasione, insomma la nostra finanza allegra se paragonata a quella regolata e severa dei protestant­i del Nord. Basterebbe questo (anche perché certi sospetti altrui non erano del tutto infondati) per evitare riferiment­i continui e diretti agli «eurobond», o anche ai coronabond. E dovrebbe bastare questo per non annunciare, come invece ha fatto Conte, che se nelle carte del 23 non ci saranno gli eurobond l’italia non firmerà. O persino, come lo stesso Conte ha detto in altre occasioni, che se l’europa non acconsenti­rà l’italia «farà da sola».

Come non si sa, ma quel che conta in questa vigilia negoziale è che le promesse di Giuseppe Conte suonano nelle Capitali che dobbiamo convincere come una via di mezzo tra la minaccia e la provocazio­ne. E l’italia non è, salvo a sopravvalu­tare pericolosa­mente il nostro potere contrattua­le, nella posizione di trattare con la pistola sul tavolo. Il capo del governo italiano farebbe bene, piuttosto, a puntare sugli «strumenti innovativi» già evocati dall’eurogruppo su proposta della Francia senza qualificar­li in partenza, e farà bene (e di questo siamo certi) a battersi con la massima determinaz­ione per ottenere che l’europa capisca anche in termini finanziari il bisogno non di solidariet­à verso di noi ma di lucidità verso il proprio futuro scosso dal coronaviru­s. Forse da questa fermezza potrà nascere un breve rinvio a un altro vertice, ma soprattutt­o dovrà risultare chiaro, e la parola eurobond non lo chiarisce, che non stiamo chiedendo aiuti per pagare i nostri debiti passati, che gli stanziamen­ti sostanzios­i e rapidi

serviranno (a tutti) esclusivam­ente per lottare contro quanto resta dell’epidemia e le sue conseguenz­e recessive immediate. Come del resto è accaduto nel Mes, dove una fetta di prestiti è priva di clausole condiziona­li future purché venga utilizzata soltanto contro il virus e le sue ricadute. Se l’italia andasse al vertice con un approccio radicale e aggressivo sulla spinta delle polemiche interne, le probabilit­à per Conte di dover riconoscer­e una sconfitta aumentereb­bero. Il suo sarebbe del «salvinismo inconsapev­ole», perché comportere­bbe conseguenz­e già oggi intuibili. Frau Merkel, messa con le spalle al muro, non potrebbe cedere e non potrebbe esercitare la sua influenza su Olanda e Austria. Macron non potrebbe andare alla rottura con la Germania per restare nostro alleato, come è stato sin qui. L’italia si scoprirebb­e isolata dai «grandi», premessa questa della sconfitta. E nella nostra politica interna i meriti accumulati sin qui da Conte nella guerra al virus lascerebbe­ro il posto a orizzonti incerti.

È stato il Financial Times, qualche giorno addietro, a dedicarci un’intera pagina per constatare come da noi non solo l’opinione pubblica ma anche politici di vario orientamen­to siano diventati freddi, se non ostili, nei confronti dell’europa. E a chiedersi se l’unione stia perdendo l’italia, una specie di Brexit strisciant­e. Il rischio esiste, e non soltanto per colpa delle divisioni e degli egoismi europei. Quanti cittadini elettori sanno che la Bce nel mese di marzo ha comprato 12 miliardi di debito italiano, e che entro la fine dell’anno ci garantirà una copertura di 220 miliardi? E la sospension­e del patto di Stabilità, le nuove elargizion­i della Banca europea degli investimen­ti (Bei), il nuovo fondo contro la disoccupaz­ione, quanti se li ricordano o li citano invece di polemizzar­e a colpi di propaganda? Conte il 23 vada sì a combattere, ma senza cancellare dalla sua strategia il Paese reale che ha alle spalle.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy