Juci, ex ballerina alla Verdi «Ognuno nella sua stanza Siamo come murati vivi»
A 93 anni è nel ricovero per gli artisti di Milano
«Da un mese viviamo murati vivi qua dentro, ognuno nella propria stanza. Prima ci hanno precluso il salone dei concerti, poi la Toscanini. E il giorno dopo, quando scendevo per pranzo, mi hanno bloccato ancora: niente più refettorio. Peraltro nessuno ci dice cosa succede in struttura, fuori dalle nostre camere. Me ne accorgerò da sola quando ci libereranno: vedrò chi non c’è più ai tavoli a mangiare, e capirò». Judith Forgacs, 93 anni, ancora bella e lucidissima, nel 1952 fondò una scuola di danza e ginnastica che divenne molto nota a Milano. Per questo ha il diritto di risiedere nell’ambita Casa di riposo per ex artisti, la Giuseppe Verdi.
Anche qui, a dispetto di regole «di protezione» applicate in modo rigoroso, il virus è arrivato. Un’ospite, sui 55 totali, è morta per Covid accertato, altre due persone infette sono state spostate in una dépendance della struttura e sei operatori positivi sono in malattia. Lei, origini ungheresi, alla notizia non si scompone. Venne in Italia nel 1945, subito dopo la guerra; aveva appena 18 anni ma si sposò, ebbe una figlia e poi, da un secondo matrimonio, un’altra.
«Di tanto in tanto, mentre leggo qui in stanza, sento la voce di qualcuno che esce in corridoio a chiacchierare. Ma non hanno capito che è una cosa dannatamente seria? A me non spaventa la morte, ma una morte così brutta — ragiona —. Sto facendo tutto quello che è umanamente possibile per salvarmi. Disinfetto
persino le bottiglie d’acqua». Ha una grinta combattiva rara per la sua età: se è finita la guerra che sembrava non passare mai supereremo anche questa, non si stanca di ripetere. «Sa cos’è che mi fa più male? L’idea che non rivedrò mai più il mio mondo, il mondo come era prima. Saremo, chissà per quanto tempo, meno liberi. Usciremo per strada imprigionati nella gabbia delle nostre paure. Paura di contagiarci, paura di perdere le sicurezze su cui si è basata una vita intera. Persino paura che qualcuno speculi sulle nostre umane paure».
Le fanno forza i versi di Pablo Neruda («Nascere non basta, è per rinascere che siamo nati»), ha la fortuna di riuscire ancora a leggere e di poter usare il cellulare per sentire figlie, nipoti e bisnipote. Molti altri ospiti non sono autosufficienti. Judith detta Juci cerca di restare ironica. «In tempi normali qui alla Casa Verdi arrivano frotte di turisti e girano studenti di musica con allegri strumenti a tracolla, adesso c’è un circospetto silenzio».
Tre volte alla settimana da lei veniva una dama di compagnia: «Andavamo a spasso, parlavamo un po’. È difficile fare amicizia da vecchi ma devo ammettere che quella signora mi manca», concede. D’improvviso si alza in piedi, chiama una assistente sociale. Le chiede dei ravanelli rossi. «Se possibile me li porta, da mangiare dopo?». È la sua teoria: «Cerco di esaudire ogni giorno almeno uno dei miei desideri e se mi accorgo di averli ancora, i desideri, mi dico: sto bene, sono viva».
La lotta quotidiana «Faccio il possibile per salvarmi. Non mi spaventa la morte, ma una morte così brutta»