«Stiamo sprecando tempo: le produzioni ripartano»
Costamagna: le nostre aziende perdono quote a favore della Germania
«Cerchiamo una ricetta unica per ripartire. Non si può pensare di riaprire in ordine sparso, ciascuno con il proprio modello. Bisogna attuare protocolli per ogni settore ed elaborare un format. Certo, grandi accordi frutto di una convergenza tra azienda e sindacati, come quello firmato per esempio da Fca, uno dei maggiori gruppi industriali del Paese, possono fornire un modello a cui ispirarsi. Ma ripartiamo al più presto perché le aziende italiane stanno perdendo le commesse a favore di quelle tedesche, francesi o spagnole, che proprio oggi riaprono i cancelli. Una volta perso un cliente è difficile riconquistarlo e molte aziende potrebbero chiudere. È un grido di allarme che ormai arriva da tutte le imprese del nostro territorio». Claudio Costamagna, un passato da banchiere in Goldman Sachs, ex presidente di Cassa depositi e prestiti, qui è nella triplice veste di consigliere nei board di gruppi come Arvedi e Salini, da tempo vicino a imprese come Moncler e consulente fra gli altri di Ariston Thermo e Technogym. Infine è investitore attraverso la sua Cc&soci in realtà come Tiscali, Expert System e la bresciana New Oxidal. Ma secondo Costamagna anche il protocollo comune non basta. «Ci vuole anche meno burocrazia, ce lo ha insegnato l’esperienza della ricostruzione del Ponte Morandi a Genova. Usiamo quell’esempio per tutta l’italia. E poi c’è una terza via: i momenti di crisi dovrebbero essere usati per accelerare l’unione politica in Europa».
Come pensa si possa procedere?
«Stiamo perdendo troppo tempo. Le fabbriche italiane stanno soffrendo uno svantaggio competitivo fortissimo in Europa perché negli altri Paesi sono aperte. Un lockdown fino al 3 maggio è troppo lungo. Faccio un esempio, dall’estero ci sono richieste di tessuti italiani ma se i centri di produzione sono fermi i clienti vanno a comprare in Turchia. Il punto di partenza è che dovremo convivere con questo virus per sei-dodici mesi. Bisogna arrivare a un protocollo che preveda strumenti di protezione per chi lavora, distanziamento, controlli medici continui, sanificazioni. È esattamente quello già seguito dalle imprese industriali che sono rimaste al lavoro».
A chi si dà la responsabilità?
«In primo luogo la responsabilità è dell’imprenditore, è il primo responsabile in fabbrica dei suoi lavoratori. Lavoro e salute non sono in antitesi. Naturalmente ci dovranno essere controlli severi. Che si diano deleghe a istituzioni pubbliche e forze di polizia per effettuarli e imporre sanzioni pesanti a chi non si attiene ai protocolli. Non si può più ragionare in funzione dei codici Ateco».
C’era un’emergenza da affrontare..
«Sono riferimenti vecchi di cinquant’anni che non rispecchiano più la realtà. Infatti molte imprese hanno ottenuto deroghe. Qui ci sono aziende che hanno continuato a lavorare, in più anche in zone critiche. Il gruppo siderurgico Arvedi è di Cremona e non ha mai chiuso. Su 4 mila addetti ha registrato una decina di casi e tutti originati altrove. Qui i protocolli sono stati elaborati anche in base all’esperienza in Cina dove il gruppo ha clienti e dove non ha mai smesso di ascoltare le esperienze. Sono le aziende con forte presenza internazionale che possono indicare la strada alle altre, soprattutto quelle dai trenta dipendenti in su».
A Vittorio Colao spetta ora la guida della task force per la ripartenza nella fase 2 .
«La scelta di Colao va senza dubbio nella direzione giusta, ma poi le decisioni sono sempre di tipo politico».
Lei è vicino ad aziende che lavorano nella moda come Moncler che vorrebbero ripartire, come del resto tutto il mondo della moda.
«Moncler ha fabbriche anche all’estero e ha il vantaggio di essere ripartita in Asia dove i dati sono positivi. Lo ripeto, si deve riaprire, anche i negozi, seguendo regole ferree. Se no muoiono aziende ma anche filiere che non ricevono più ordini. Siamo un mercato fatto di migliaia di piccole realtà, eccellenze la cui esistenza ora è in gioco. E con essa altrettanti posti di lavoro. Vogliamo rischiare anche l’emergenza sociale? Trasformiamo piuttosto la fase di crisi in un momento di accelerazione, anche dei lavori infrastrutturali urgenti. Penso che il nuovo ponte di Genova sia il modello da seguire. Nell’emergenza è riuscito ad arginare l’apparato burocratico regionale e nazionale. Ma la decisione alla fine è sempre politica».
Il Dl Liquidità riuscirà a tamponare?
«Sarebbe utile se garantisse un accesso semplificato al credito. Ma non è così. Penso piuttosto che ci sia un tema importante a livello europeo, che va oltre i finanziamenti per la ripresa».
A cosa pensa?
Una volta perso, un cliente è difficile riconquistarlo: molte aziende italiane stanno perdendo le commesse e potrebbero chiudere
Bisogna arrivare ad un protocollo che preveda strumenti di protezione per chi lavora, distanziamento, controlli medici continui
«Penso che bisognerebbe accelerare l’unione politica. E ora c’è un vantaggio perché l’addio della Gran Bretagna ha tolto un freno a tutta l’europa. La Francia spinge e la Germania non si tirerebbe indietro. Anche qui, ci vorrebbe una leadership politica italiana per giocare alla pari. Poi, in un momento in cui da noi si parla di Golden Power per difendere le aziende, si potrebbe pensare di estendere i poteri a livello europeo per stimolare la nascita di grandi gruppi targati Ue.