«Chi ha i sintomi del virus va isolato davvero Non basta restare a casa»
Tersenghi, ordinario di Fisica teorica: serve di più
Dal 4 marzo si è auto-isolato a casa, 7 giorni prima del lockdown nazionale. Appena il tempo di prendere servizio come ordinario di fisica teorica e computazionale alla Sapienza. «Avevo capito come sarebbe andata a finire», racconta Federico Ricci Tersenghi, 48 anni, esperto di simulazioni, autore di un modello matematico per «leggere», l’epidemia da Sars-cov-2.
Cosa vede sotto la curva?
«Mi sembra che il plateau sia un piattume, forse il lockdown dell’11 marzo in alcune Regioni non ha funzionato . È successo anche in Cina dove la prima chiusura del 24 gennaio a Wuhan ha riportato il valore dell’r0, l’erre-zero, il tasso di contagio, poco sopra l’1. Significa che il virus andava avanti. Il governo ha poi varato un regime di quarantena centralizzata isolando in zone protette i pazienti con sintomi lievi e i contatti delle persone positive anche senza il risultato del tampone. Solo allora l’r0 è sceso a 0,3 determinando lo stop dell’epidemia».
Pensa che da noi servirebbe più rigore?
«In Italia potrebbe accadere che queste misure non siano sufficienti. Non stiamo assistendo a una riduzione della curva tale da prevedere l’uscita rapida dall’incubo. Bisogna fare qualcosa di più per impostare la fase 2. Serve un protocollo per gestire chi ha i sintomi oppure è stato a contatto con un positivo. Questi individui dovrebbero essere isolati, non a casa ma in luoghi di vera quarantena. Non basta utilizzare una app per tracciare i contatti. Dobbiamo agire con tempestività dopo averli trovati. La regola dello “stai a casa finché non peggiori” non ha senso».
Siamo preoccupati, dopo un mese di chiusure ci aspettavamo risultati più netti. Rispetto ai numeri ufficiali c’è un fattore moltiplicativo di otto
Lei parla da epidemiologo. Non fa il fisico?
«Passo la vita a costruire modelli dove dal rumore si estrae il fenomeno. Come in tutti i processi naturali anche la curva di questa epidemia è rumorosa, ballerina. Spetta al tecnico cercare di capire cosa c’è dietro il su e giù. Vale in fisica, finanza, medicina, ovunque sia utile fare misure».
Cosa dice il suo modello?
«È basato sui decessi accertati, unico dato abbastanza reale sebbene nelle zone più colpite della Lombardia le vitti
me potrebbero essere state il doppio. Rispetto ai numeri ufficiali ci aspettiamo un fattore moltiplicativo di 8. Gli infetti dovrebbero essere stati circa 1 milione. Siamo preoccupati, un mese di chiusure avrebbe dovuto portarci a risultati più netti e anche i decessi sarebbero dovuti decrescere come in Lombardia. Lo stesso però non è avvenuto su scala nazionale. La speranza è di osservare una riduzione netta questa settimana, 25 giorni dopo il secondo lockdown del 23 marzo, quando sono state chiuse le attività produttive. Per impostare la fase 2 è decisivo capire quanto il virus sia diffuso».
Perché il vostro modello dovrebbe essere migliore di tanti che non ci hanno azzeccato?
«Rientra nella natura della scienza fare ipotesi, realizzare che sono sbagliate e correggerle. Cambia solo l’onestà intellettuale con cui i modelli vengono proposti. I ricercatori dovrebbero dichiararne i margini di incertezza, senza spararle grosse. Spero che la politica abbia capito con questa esperienza l’importanza di ascoltarci».