«Ho dato l’ostia ai malati E io, medico, piangevo»
Racconta il dottor Filippo Risaliti, 46 anni, tre figli, una moglie farmacista ospedaliera, che quando ha pronunciato per la prima volta nella sua vita quelle due parole con l’ostia nelle mani non è riuscito a trattenere le lacrime. «La visiera si è appannata una volta, un’altra e un’altra ancora — ricorda — perché l’emozione era tanta nel sapere che io, un medico internista, cercavo di curare quei malati di coronavirus, alcuni gravissimi, non solo nel corpo ma tentavo anche di alleviare loro le sofferenze dello spirito». Quelle parole erano Corpus Christi e Filippo le ha pronunciate più di cento volte nel giorno di Pasqua quando, assieme ad altri cinque medici, ha distribuito la comunione ai pazienti dell’ospedale di Prato che glielo chiedevano. A far decidere il dottor Risaliti a trasformarsi per poche ore in un sacerdote è stato il dolore. «Nel vedere quelle persone colpite duramente dal male due volte: nel corpo e nell’anima — spiega —. Perché è difficile capire che cosa significa per loro, chiusi in stanze di contenimento, soli, senza visite dei propri cari e con medici e infermieri vestiti come marziani, vivere questi giorni terribili. Il virus ha attaccato anche il loro spirito. Così, in accordo con il vescovo, che ci ha nominati ministri straordinari dell’eucarestia, abbiamo cercato di dare loro conforto con la comunione (nel frattempo il presule guidava la preghiera trasmessa dagli altoparlanti dell’ospedale, ndr). E con qualche buona parola per chi non era credente o apparteneva a un’altra religione. E chissà forse così li abbiamo curati due volte».