Corriere della Sera

Quarantene di oggi, quarantene di ieri

- di Gian Antonio Stella

All’asinara «le fosse erano scavate nel vivo sasso, col mezzo delle mine. Quivi erasi saputo da tempo che quattro vapori con un 7000 persone a bordo, e che avevano delle malattie infettive, sarebbero venuti a fare quarantena; e forse per questo eransi preparate 6 fosse e colla profondità di metri 3 circa nelle quali venivano buttati cadaveri»... Finché non fossero state appunto riempite fino all’orlo e ricoperte. Per poi eventualme­nte scavarne delle altre. Anche i nostri nonni migranti, come scrisse all’epoca uno dei passeggeri, Cesare Malavasi, ne L’odissea del piroscafo Remo, ovvero il disastroso viaggio di 1500 emigranti respinti dal Brasile, vissero storie di quarantena simili a quelle vissute in questi giorni dagli africani raccolti in mare dalla «Alan Kurdi». I loro supplizi, anzi, furono spesso più crudeli. Basti ricordare la sorte dei passeggeri dei bastimenti che, respinti dai porti brasiliani, uruguagi o argentini perché a bordo c’era qualche epidemia, come ricostruis­ce la storica Augusta Molinari ne Le navi di Lazzaro, furono costretti a rifare appunto il percorso inverso e tornare dalla Merica in Italia, per una interminab­ile quarantena finale. Spesso appunto all’asinara. Scelta dalle autorità italiane, spiega la storica Eugenia Tognotti, dopo «una violentiss­ima protesta» della gente di La Spezia e di Napoli contro il governo, invitato a stare alla larga dalla Liguria e dalla città partenopea per optare piuttosto su «un’isola lontana dal Continente» da destinare alle segregazio­ni sanitarie. Lo sbarco nell’arcipelago davanti a Stintino fu traumatico: «I poveri quarantena­ri», scrisse Malavasi, «dovettero soffrire immensamen­te, sia per la disagievol­ezza che per l’eccessivo freddo. Spirò durante la notte un vento frigidissi­mo il quale, penetrando, sì per gli steccati d’entrata che per i pertugi semicircol­ari che funzionano da finestre, non permise a quegli infelici il menomo riposo. I trapuntini erano scarsi, e i primi entrati essendosen­e impossessa­ti, gli ultimi rimasero privi, costretti a coricarsi sull’arena del mare». Per non dire dell’infamia degli armatori che, indifferen­ti alla morte di 96 poveretti uccisi dalla scelta folle di proseguire la traversata anche dopo (dopo!) la scoperta del colera a bordo, chiesero ai sopravviss­uti, minacciand­o di far loro pagare viaggio e quarantena, di firmare una lettera in cui «assolvevan­o» i padroni della nave da ogni responsabi­lità. Certo che ne avevano, come gli scafisti di oggi, di pelo sullo stomaco.

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