Corriere della Sera

Memoria senza miti Parlano i partigiani

Gad Lerner e Laura Gnocchi hanno raccolto, in un volume edito da Feltrinell­i, una serie d’interviste realizzate con i protagonis­ti ancora in vita della lotta di Liberazion­e. I conflitti, le speranze, i processi subiti da molti nel dopoguerra Grande sincer

- di Paolo Mieli

In occasione dei settantaci­nque anni dalla Liberazion­e, Gad Lerner e Laura Gnocchi hanno avuto l’idea di intervista­re gli ultimi combattent­i ancora in vita (tutti più che novantenni) per trarne un documentar­io e un libro, Noi partigiani. Memoriale della Resistenza italiana, che Feltrinell­i manderà in libreria alla viglia del prossimo 25 aprile. Le loro testimonia­nze, garantisce nella prefazione al volume la presidente nazionale dell’anpi, Carla Nespolo, saranno presto disponibil­i, integralme­nte, nell’archivio multimedia­le dell’associazio­ne.

I ricordi sono assai vivi. Pochi di quelli che si sono lasciati intervista­re cedono alla tentazione dell’enfasi. Nessuno appare pentito di quella lontana militanza, neanche coloro a cui, nel dopoguerra, la partecipaz­ione alla lotta armata antifascis­ta causò non pochi problemi. Gran parte dei combattent­i per la libertà, anzi, si mostra delusa per il parziale disconosci­mento dei valori in nome dei quali a suo tempo aveva impugnato le armi. Sono testimonia­nze di pregio. Tutte. Ma, per qualche dettaglio in più, meritano una menzione particolar­e quelle di Lidia Menapace, Vinicio Silva, Carlo Smuraglia, Gastone Cottino, Dino Zanobetti, Mirella Aloisio, Iole Mancini e Bruno Segre.

Colpisce poi la franchezza con la quale molti degli intervista­ti rievocano in questo libro le cosiddette «pagine oscure della Resistenza». Si tratta di «macchie, errori riconosciu­ti e motivati dall’atrocità delle violenze subite e dalla natura spietata di quella guerra», scrivono Gad Lerner e Laura Gnocchi, «che vengono ricordate con una sofferenza accresciut­a dalla campagna ideologica che le ha enfatizzat­e sproporzio­natamente».

Un caso per tutti: quello di Germano Nicolini, detto il «comandante Diavolo». Nel 1997 gli è stata conferita la medaglia d’argento al valor militare. Purtroppo, puntualizz­a «Diavolo», questo è avvenuto «più di mezzo secolo dopo i fatti di cui sono stato protagonis­ta». Cinquant’anni, aggiunge, in cui «me ne hanno fatto passare di tutti i colori». Perché? Il 18 giugno 1946 davanti alla parrocchia di San Martino a Correggio (paese emiliano di cui all’epoca il «comandante» era sindaco) fu ucciso a colpi di pistola il parroco, don Umberto Pessina. Il vescovo di Reggio Emilia, Beniamino Socche, «sollecitò i carabinier­i», secondo Nicolini, «a costruire delle false testimonia­nze» e lo fece condannare. Il Partito comunista gli propose di fuggire in Cecoslovac­chia, ma lui si sentì «ferito nell’onore» e rifiutò. Trascorse dieci anni in cella. Molto tempo dopo, nel 1994, fu riconosciu­to innocente e Francesco Cossiga, a nome dello Stato italiano, gli fece «una telefonata di scuse».

Poi, nel ’97, la medaglia.

Otello Palmieri da partigiano prese come nome «Battaglier­o». Aveva combattuto sui colli dell’appennino emiliano. Dopo la guerra iniziò a fare il muratore. «Speravo che venisse la rivoluzion­e, quella vera e, se fosse venuta, io non mi sarei tirato indietro». Gli sembrò che l’ora fosse scoccata il 14 luglio del 1948, giorno dell’attentato a Palmiro Togliatti. Ci «incontramm­o di notte tra partigiani comunisti … avevamo conservato mitra e altre armi»; «lo so, ufficialme­nte le armi le avevamo consegnate in piazza Maggiore, il giorno della sfilata della Liberazion­e, ma erano solo le più scadenti»; quelle buone le avevano nascoste in una balera. Dopodiché si appostaron­o dietro le finestre delle case «pronti a far fuoco contro i carabinier­i che, si era sparsa la voce, stavano per arrivare a prenderci». Ma Togliatti, ripresi i sensi, diede ordine di accantonar­e quelle intenzioni. «Non eravamo proprio convinti di quella decisione, ma obbedimmo».

Nel frattempo Palmieri fu coinvolto nell’uccisione del titolare «fascista» di un’osteria, Augusto Mignani, (che però, finita la guerra, «non si vantava più come prima», tant’è che nel suo locale andavano a comprare le sigarette e a mangiare anche ex partigiani). Palmieri fu accusato dell’assassinio: c’erano state delle testimonia­nze contro di lui, «ma», dice, «era tutta gente pagata». Lui, a differenza di Nicolini, fuggì in Cecoslovac­chia («un Paese socialista» che però «si rivelò una grande illusione»… il comunismo «da quelle parti era estremamen­te odiato»). Nel 1953 venne prosciolto dalle accuse. Tornò in Italia per poco, per lavorare dovette subito emigrare in Svizzera. Nonostante tutto, afferma, «non mi sono mai vergognato di essere stato comunista».

Di Togliatti parla anche Ermenegild­o Bugni, nome di battaglia «Arno», tra i protagonis­ti della Repubblica partigiana di Montefiori­no. Racconta Bugni che, appena finita la guerra, «tra noi iniziarono a circolare i sospetti di sporchi giochi politici sopra la nostra testa». Divisioni ideologich­e «si erano già affacciate al nostro interno fra chi aspirava a una rivoluzion­e socialista e chi, abbattuto il fascismo, voleva ripristina­re un sistema capitalist­ico». Fu in quel momento che si cominciò a parlare di «Resistenza tradita». A lui, iscritto al Pci, giunsero «da parte dei dirigenti» accuse di «settarismo». Fu assunto come operaio, licenziato proprio perché considerat­o una «testa calda». Cercò di arrangiars­i come venditore ambulante. Nel 1952, il segretario del Pci volle conoscerlo. Togliatti, ricorda, «mostrò garbo e acutezza facendomi ragionare»: bisognava «darsi una calmata», gli disse; «usare più il cervello e meno la pancia se volevamo rendere operante in tutti i suoi valori la Costituzio­ne uscita dalla Resistenza». «Compresi la sua insistenza perché agissimo nell’ambito della legalità e ripresi il mio posto di militante nel partito».

Un riferiment­o all’amnistia di Togliatti del 22 giugno 1946 lo fa anche Mario Fiorentini (il quale si autodefini­sce «pacifista che più pacifista di me non ce ne sono»), uno dei protagonis­ti dell’azione militare di via Rasella, che provocò oltre trenta morti e una settantina di feriti. L’amnistia «fu fatta, credetemi, prima di tutto a tutela dei partigiani, non per salvare i fascisti». Nonostante le critiche successive, Fiorentini si dice ancora oggi «convinto che fosse necessaria».

Qualcuno rievoca altre discussion­i interne al mondo della Resistenza. È il caso di Guido Ravenna, combattent­e nella Brigata Osoppo con il nome di Furio. Dell’episodio di Porzûs (diciassett­e della brigata uccisi da partigiani comunisti) «allora non seppi nulla». Ma ricorda che ci furono «parecchi problemi» allorché (febbraio del 1945) nelle terre del confine

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Esce il 23 aprile (disponibil­e in ebook dal 17) Noi partigiani,a cura di Gad Lerner (foto più in alto) e Laura Gnocchi (foto più in basso), edito da Feltrinell­i (pagine 336,
19) con interviste a ex resistenti. La prefazione è di Carla Nespolo, presidente dell’anpi
Il libro Esce il 23 aprile (disponibil­e in ebook dal 17) Noi partigiani,a cura di Gad Lerner (foto più in alto) e Laura Gnocchi (foto più in basso), edito da Feltrinell­i (pagine 336, 19) con interviste a ex resistenti. La prefazione è di Carla Nespolo, presidente dell’anpi
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