Corriere della Sera

Sandro Veronesi online sulla «Colonna infame» per il ciclo della Triennale

- Paolo.mieli@rcs.it

orientale il Pci decise di far confluire la Brigata Garibaldi nell’esercito di liberazion­e jugoslavo. Altri problemi quelli della Osoppo li ebbero quando catturavan­o altoatesin­i che si dichiarava­no italiani, non tedeschi. I compagni di Ravenna ovviamente non disponevan­o di prigioni e qualcuno di questi prigionier­i lo lasciarono scappare. Poi qualche fuggiasco trovò l’occasione di ricambiare il favore.

Particolar­mente toccante è la densa testimonia­nza di Sergio Dallatana, nome assunto nella Resistenza «Mario». Per lui fu decisivo quel che capitò al comandante Juan («che solo anni dopo ho scoperto si chiamava Gianni Di Mattei»). Il comandante Juan disobbedì a un ordine della Brigata Garibaldi e fece compiere ai suoi un’azione che costò la vita a sette partigiani. Fu convocato con un pretesto, «sottoposto a un processo sommario e giustiziat­o». A premere il grilletto fu «un certo Tom che, qualche settimana dopo, si scoprì essere un infiltrato nazista». Dallatana ha memoria di aver reagito «furibondo» al cospetto di quel «processo stalinista». Mantenne in ogni caso il suo impegno nella lotta armata per la Liberazion­e. Nei cinquant’anni successivi al 1945, ricorda adesso, «sono andato a lavorare all’estero e ho messo da parte il partigiano Mario… ero ancora troppo arrabbiato». Oggi, però, avverte il bisogno di tornare su quei fatti e «di spiegare cosa ha significat­o la Resistenza».

Valentino Bortoloso, nato a Schio (Vicenza)

Nella Storia della colonna infame Alessandro Manzoni ricostruì la vicenda di Guglielmo Piazza e Gian Giacomo Mora, accusati di essere «untori» durante la peste milanese del 1630 e uccisi sulla ruota. Se ne occupa oggi, alle ore 17, lo scrittore premio Strega Sandro Veronesi, in un incontro online del ciclo Triennale Decameron, rassegna sul canale Instagram della Triennale di Milano che ospita dibattiti con autori e artisti.  Traversie Germano Nicolini venne accusato di omicidio, non volle fuggire all’est e finì a lungo in carcere. Riconosciu­to innocente, ora è medaglia d’argento

Discussion­i Ermenegild­o Bugni sperava in uno sbocco rivoluzion­ario e ruppe con il Pci. Ma Togliatti lo convinse che si doveva agire nella legalità nel 1923, figlio di un operaio della Lanerossi, fu partigiano e, appena finita la guerra, prese parte all’eccidio nel carcere della sua città. Già da alcuni anni ha definito «inutile e dolorosa» la strage di ex fascisti da lui compiuta — insieme ad altri undici suoi compagni — nell’estate del 1945. Il suo nome di battaglia era «Teppa» (ispirato, racconta, da un film sulla malavita francese).

AVeronesi, candidato allo Strega con Il colibrì (La nave di Teseo), è uno degli 8 scrittori che su «la Lettura» compongono il Diario a staffetta del virus e interverrà su La colonna infame. L’architettu­ra letteraria del lockdown ai tempi de «I promessi sposi», con Gianluigi Ricuperati. «Metterò a fuoco — spiega Veronesi — due aspetti: il primo l’attualità di questa figura fantomatic­a dell’untore; il secondo è sull’opera di Manzoni, la prima

ppena finì la guerra, gli inglesi avevano rinchiuso gli ex fascisti di Schio nella prigione locale. Poi, però, cominciaro­no a liberarli con il pretesto che il carcere era sovraffoll­ato. A fine giugno tornò in città William Perdicchi, reduce dal campo di concentram­ento di Mauthausen, unico sopravviss­uto tra quattordic­i deportati: pesava trentotto chili. Fu per l’emozione suscitata da questo ritorno, rievoca Bortoloso, che lui e i suoi compagni decisero di compiere l’incursione nella prigione di Schio, prima che il governator­e britannico mettesse in libertà altri «fascistoni», «forse già arruolati nel controspio­naggio». Entrarono in carcere, dove «fecero» cinquantaq­uattro morti e trentuno feriti.

Oggi ritiene che «siamo stati gli allocchi che hanno abboccato all’amo». Altrimenti «perché erano stati tolti i carabinier­i e nessuno, neppure gli inglesi, ha agito quando fu chiaro che entro pochi giorni il carcere sarebbe stato assaltato»? Nelle ore successive, uno di loro,

Alcuni partigiani delle Fiamme verdi (formazioni di matrice cattolica) in provincia di Brescia. La Resistenza prese avvio nel 1943, quando l’armistizio firmato dall’italia con gli Alleati provocò la reazione dei tedeschi, che occuparono militarmen­te il nostro Paese versione del 1820, turbinosa e bellissima, e la seconda, quella ufficiale del 1840, che è solo un capitolato di verbali. Nella seconda versione, Manzoni, credendo di agire in nome della verità storica, ha strozzato nella culla la sua invenzione, il romanzo ottocentes­co, la scrittura narrativa moderna, per non cedere alla fiction. Mentre proprio il romanzo ha saputo darci la verità della grande storia». (i. bo.)

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Renzo Franceschi­ni («che aveva l’abitudine di bere») si vantò pubblicame­nte dell’impresa. Alcuni scapparono in Jugoslavia. Lui no. Gli fu fatale il numero 6. Fu arrestato il 6 agosto 1945, un mese dopo la strage del 6 luglio, e processato dopo altri trentun giorni, il 6 settembre. Racconta di essere stato anche torturato. Fu condannato a morte, pena poi commutata in ergastolo e, dopo dieci anni, uscì per un’amnistia. Mai venne meno la solidariet­à dei comunisti locali. Quando fu portato in prigione a Padova — gli è rimasto impresso nella memoria — per strada «ci buttavano i fiori dalle case, battevano le mani». Poi venne la stagione del rimorso. Qualche anno fa, su iniziativa del vescovo di Vicenza, Beniamino Pizziol, ha incontrato Anna Vescovi, figlia del commissari­o prefettizi­o ucciso quella notte a Schio e assieme hanno firmato una «lettera di riconcilia­zione e perdono».

Aldo Tortorella (nome di battaglia «Alessio»), che nel Pci era destinato ad avere un ruolo di primissimo piano, ricorda che dopo la sconfitta del Fronte popolare alle elezioni del 1948 «il sentimento nei confronti dei partigiani mutò». Molti di loro furono mandati a processo. Tortorella cita il caso Moranino. Argante Bocchio inserisce la vicenda Moranino, il comandante «Gemisto» accusato di aver fatto uccidere altri combattent­i per la libertà, nel quadro di «una vera e propria persecuzio­ne politica antipartig­iana». Moranino era deputato del Pci e nei suoi confronti il Parlamento concesse per la prima volta l’autorizzaz­ione all’arresto. Bocchio (con Silvio Bertona) fu processato assieme a lui e fuggirono in Cecoslovac­chia. Il tribunale assolse Bocchio e Bertona, ma condannò Moranino.

Tortorella propone un’inedita comparazio­ne tra il destino di Oscar Luigi Scalfaro e quello di Francesco Moranino, combattent­e comunista («o meglio democratic­o avanzato», precisa Tortorella) condannato per aver fatto uccidere cinque partigiani, di cui si è detto, e poi, nel 1965, graziato dal presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. La storia di Moranino è per Tortorella paragonabi­le a quella di Scalfaro, il quale, avendo presieduto un processo partigiano (al termine del quale fu comminata la pena di morte) «l’ha scampata per un pelo in quanto magistrato». Quanto al mito dell’urss, è interessan­te il ricordo di Tortorella di una frase pronunciat­a dal suo compagno di università Quinto Bonazzola: «Guarda che noi non sappiamo ancora se il difetto è “nel” sistema sovietico o “del” sistema sovietico». Parole che, racconta, «mi hanno aiutato a maturare una coscienza disciplina­ta ma critica». Molti di questi ultimi partigiani ancora in vita intervista­ti da Lerner e Gnocchi, appaiono — a leggere tra le righe i loro ricordi — più coraggiosi di gran parte degli storici che hanno affrontato i nodi irrisolti di quell’esperienza.

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Sui monti
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Sandro Veronesi (Firenze, 1959)

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