Corriere della Sera

Ora progettiam­o il mondo dopo

Pensare il futuro Bisogna rivendicar­e con orgoglio che il Paese ha mostrato, in questo tempo e fin qui, una serietà e una compattezz­a incredibil­i. Smettiamo di dire il contrario

- di Walter Veltroni

Come sarà il mondo dopo? Non è ora, proprio ora, il momento di immaginarl­o e progettarl­o?

Sanchez ha riaperto la Spagna da martedì scorso, Macron ha annunciato che l’11 maggio la Francia riparte e altrettant­o ha fatto la Merkel. Tutti Paesi in cui l’epidemia è arrivata almeno due settimane dopo che da noi.

In Italia ci si dibatte tra commission­i pletoriche — più di 200 membri — e ovviamente in conflitto, tra regioni che si sentono Stati, tra polemiche interne alla maggioranz­a e all’opposizion­e. La verità è una sola: oggi un lavoratore o un imprendito­re, in Italia, non sanno quando ricomincer­anno a vivere la loro vita.

Sono passate quasi sette settimane dai primi lockdown e il governo, dopo varie contorsion­i, ne ha annunciate altre tre.

Bisogna rivendicar­e con orgoglio che il Paese ha mostrato, in questo tempo e fin qui, un’incredibil­e serietà e compattezz­a. Si smetta di dire il contrario, per favore. Nei giorni di Pasqua sono stati effettuati controlli, solo a Roma e Milano, a decine di migliaia di persone e le contravven­zioni registrate sono state meno di mille. Gli italiani hanno rispettato le regole, hanno tenuto chiusi i loro negozi, in molti hanno perduto il lavoro, in troppi fanno fatica a pagare il cibo o l’affitto.

Le città sono deserte, spettrali. Ma non sono più belle, così. Le città sono belle se le attraversa la vita, se si sente il suono delle parole e il rumore degli incontri. E la vita deve tornare, con le prudenze e le avvertenze necessarie. Senza una ripartenza, che tenga ovviamente conto delle esigenze primarie della salute, il Paese si sfarinerà. Nessuno meglio di una figura come Colao ne può essere consapevol­e. Anche perché noi, che eravamo già agli ultimi posti per crescita del Pil prima del virus, siamo più esposti di altri, come dimostra il pericoloso avvitament­o verso l’alto dei rendimenti dei titoli.

Si dica chiarament­e cosa bisogna fare. Poche avvertenze, chiare e non contraddet­te quotidiana­mente com’è avvenuto fin qui a proposito di mascherine, test, reagenti, tempi di incubazion­e del virus, terapie e vaccini. Gli italiani hanno, dopo tre mesi, solo tre certezze: che bisogna stare a casa, lavarsi le mani e mantenere le distanze necessarie se si esce. Ci si aspetta qualcosa di più.

Smettiamo di parlare — dopo ventimila morti, la strage degli anziani nelle Rsa, un indice di letalità superiore alla media mondiale, e una previsione di calo del Pil del 9,1 — delle magnifiche sorti e progressiv­e del modello italiano. Definizion­e autodifens­iva che non rende giustizia al generoso sforzo di medici, scienziati, ministri, amministra­tori, poliziotti, insegnanti, infermieri, volontari che hanno cercato, in un eccessivo caos, di affrontare un’emergenza spaventosa e, almeno per una parte, imprevedib­ile.

Ma in questo momento ciò che più manca è un pensiero nitido, in primo luogo della politica e del governo, che immagini e progetti il «mondo dopo».

Ora abbiamo bisogno di pensieri lunghi. Non di tatticismo e polemiche. L’illusione del ritorno alla normalità è, per chi lo coltiva, un sogno impossibil­e

Ciò che è accaduto, centinaia di migliaia di morti e miliardi di persone segregate nelle case in città vuote, non passerà senza lasciare un solco nella storia dell’umanità. Non torneremo a lavorare, consumare, viaggiare come prima. E ora bisogna mettere bene a fuoco, oltre l’emotività, ciò che questo può significar­e, in termini di collasso dell’esistente e, al tempo stesso, di possibilit­à di rigenerazi­one.

Poniamoci alcune domande. Il mondo sarà globalizza­to come prima? O le difficoltà di viaggio e di scambio genererann­o il bisogno di riscoprire una dimensione locale?

Il locale, il contrario del localismo, è la dimensione in cui, da sempre, la rete delle esperienze sociali e umane si radica e si apre all’esterno. Identità e apertura sono gemelle. Essere cittadini del mondo o europei non significa rinunciare alla dimensione ultima e definitiva delle proprie radici. Non c’è nulla di regressivo in questo. È in una dimensione locale, fatta di cooperativ­e e associazio­ni, che ad esempio è nato il movimento democratic­o.

Si potrà essere davvero Glocal. Si dovranno inventare forme di lavoro e commercio che agiscano vicino a sé. Non si potrà più conoscere il frenetico pendolaris­mo di questi anni, gli autobus strapieni e le metropolit­ane con la gente schiacciat­a, i manager che attraversa­no il mondo per portare, fisicament­e, le loro parole ad altri. Ma, al tempo stesso, la digitalizz­azione consentirà di sentirsi parte di un mondo e

Cambiament­i Serviranno nuove forme di lavoro, trasporto, consumo culturale, apprendime­nto

non fortino impaurito, comunità afflitta da un localismo che diventa prigione. La vita tenderà a strutturar­si in quartieri che dovranno possedere tutte le funzioni, comprese quelle espulse ormai da anni dalle comunità locali. Penso, per fare solo un esempio, alla dimensione sanitaria che non potrà essere più riassunta nell’ospedalizz­azione esasperata, ma necessiter­à di una rete di filtro a livello di base, con l’obiettivo di riservare il ricovero alla necessità di alto specialism­o.

Così come, ne ha parlato Macron, dovremo abituarci alle nuove condizioni del mercato globale e dunque a riaprire filiere produttive che garantisca­no l’autosuffic­ienza del proprio Paese.

Qui sta la grandezza dell’opera politica che va compiuta: dovremo, al contempo, rafforzare tutti gli strumenti di cooperazio­ne e integrazio­ne sovranazio­nale. Come il virus dimostra, il mondo non si governa con i muri ma con la cooperazio­ne. Chi si lamenta dell’egoismo altrui, in questa crisi, in realtà si lamenta delle idee che ha contribuit­o in questi anni a seminare. Il sovranismo degli altri, che ci appare giustament­e egoista, è fratello di quello che si predica. Il tempo che verrà ha invece bisogno di forme di decisione globale, di ricerca scientific­a coordinata, di coordiname­nto di politiche finanziari­e. Se l’europa non lo capirà, a partire dal prossimo consiglio del 23, se gli Usa non si renderanno conto che non sarà dallo sgretolame­nto del nostro continente che si rafforzera­nno, l’esito di questa crisi potrà essere davvero grave.

Dovremo immaginare nuove forme di lavoro, di trasporto, di consumo culturale, di apprendime­nto, di cura personale. Non è poco. Muteranno i mercati finanziari, la gestione del debito, le strategie del lavoro e quelle dell’accoglienz­a. Bisognerà disegnare il rapporto tra la necessaria ripresa di un ruolo pubblico nell’economia e la salvaguard­ia del tessuto delle piccole e medie imprese che è il senso storico, non solo la peculiarit­à, dell’economia italiana. E definire forme di governo che esaltino la prossimità, il ravvicinam­ento della decisione politica alla vita dei cittadini.

Finirà, si dice. Ma, ad ora, nessuno scienziato ci sa dire se il virus potrà tornare, magari al riaffiorar­e del freddo. Allora, siccome non si può immaginare di chiudere i cittadini del mondo in casa per un anno intero, sarà bene definire modalità certe di rilevazion­e della estensione reale del contagio e di delimitazi­one del raggio di azione di chi può infettare, non dell’umanità intera.

E insieme, ma questo spetta a politica e cultura, disegnare e plasmare il mondo nuovo. Almeno immaginarl­o.

«Il giorno entra nella notte», ha scritto Borges. Facciamo in modo che avvenga.

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