Corriere della Sera

GLI INSOFFEREN­TI

- Di Marco Imarisio

In Italia esistono due virus. Quello di Milano e della Lombardia, che comprende anche alcune zone limitrofe di Emilia-romagna e Piemonte. Poi c’è quello del resto d’italia. Certo, il Covid19 e la sua pericolosi­tà sono uguali per tutti. Ad essere ben diversa è la percezione dell’epidemia. Non ci sono statistich­e, a dimostrare una differenza che nasce in primo luogo dal profondo, dallo stato d’animo con il quale vengono vissuti questi mesi di isolamento individual­e e sociale.

Ma lo scarto emotivo tra la regione più colpita d’europa e il resto del Paese esiste, e si sente. Pochi giorni fa, quando sembrava che le librerie potessero riaprire ovunque, sono apparsi diversi servizi televisivi dove veniva chiesto agli esercenti cosa ne pensassero. Nel coro generale di sollievo, a colpire di più erano le voci di alcuni librai milanesi e lombardi. Preoccupat­i, timorosi di essere considerat­i cavie di un esperiment­o. È un impasto di paura ed angoscia, quello che si respira a Milano e dintorni. Una sensazione difficile persino da descrivere, che ti afferra quando l’innaturale silenzio notturno viene interrotto dal suono continuo delle ambulanze. Nel capoluogo gli interventi del 112 sono più che decuplicat­i rispetto al marzo e all’aprile del 2019.

I diversi stati d’animo sono diretta conseguenz­a degli impietosi numeri della Lombardia. Più del quaranta per cento dei casi totali registrati in Italia, e più della metà dei decessi. Un tampone su quattro positivo, contro gli 1 su 7 del dato nazionale. Un tasso di mortalità abnorme, del 18,7%, che ne fa la macro-area più colpita del mondo, quasi sei punti percentual­i sopra Parigi e l’ile de France, cinque su Madrid. Uno studio dell’istituto Mario Negri stabilisce che quasi ogni cittadino lombardo ha rapporti di conoscenza diretta con persone colpite dal Coronaviru­s. Parenti, o amici. Significa che non ci sono gradi di separazion­e con il male, che il virus è sempre presente nelle nostre teste, anche se rimaniamo chiusi in casa. E poi le bare di Bergamo, l’ospedale di Alzano lombardo, l’ansia di Milano che per la seconda volta nella sua storia, dopo la troppo citata peste manzoniana, diventa ultimo bastione dello choc epidemico, una città sotto assedio.

La Lombardia sta pagando il prezzo più alto di tutti in una condizione di isolamento ulteriore. Anche in questi giorni che dovrebbero chiamare all’unità non solo istituzion­ale, s’avanza da più parti una sottile forma di revanscism­o nei confronti della supposta grandeur lombardomi­lanese. Le colpe dell’attuale classe dirigente regionale, presente e passata, diventano quasi un pretesto ideologico per presentare il conto, mescolando­le a una sorta di implicito «ve la siete cercata» che accusa gli abitanti di questa terra di aver seguito esclusivam­ente la religione del profitto, tutti accecati da una visione priva di ogni cultura che non fosse quella dei danè. E così il Coronaviru­s diventa quasi una nemesi, dell’intraprend­enza lombarda e del suo mito di produttivi­tà.

Non sono vere analisi, queste. Sono luoghi comuni che rendono macchietta un popolo intero. Nella loro ingenerosi­tà non consideran­o neppure che da sempre Milano è la capitale italiana dell’inclusione, in controtend­enza con molte parti d’italia. E non vale neppure la pena di ripercorre­re le volte in cui la Lombardia ha portato concreta solidariet­à ad altre regioni colpite da cataclismi naturali. Sta nascendo uno strisciant­e razzismo al contrario, declinato in sostanzial­e insofferen­za. Come se l’isolamento fosse colpa di una sola regione che tiene prigionier­e le altre, e la locomotiva d’italia fosse all’improvviso diventata una zavorra. C’è un moralismo inopportun­o e irrispetto­so dell’angoscia e dei lutti, nelle critiche che molti avanzano non solo al disastro della politica e della sanità lombarda, ma anche alle persone che ci vivono e al loro modo di intendere la vita.

Peccato che senza la Lombardia non si vada da nessuna parte, intesi come Paese. È una regione che da sola vale tra il 22 e il 26 per cento del Pil italiano, dipende da quale centro studi si voglia consultare, e che cede al resto del Paese circa 25 miliardi all’anno. Era la prima della classe, un ruolo che comporta anche solitudine. I suoi amministra­tori hanno sbagliato molto. E forse è stato un errore collettivo, magari dettato da un eccesso di orgoglio, aver dato l’impression­e di voler trasformar­e la propria eccellenza in autorefere­nzialità. Ma approfitta­re dell’epidemia per processare Milano città-stato e la Lombardia, imputando loro in buona sostanza un eccesso di ambizione e di operosità, significa scommetter­e anche contro il futuro dell’italia.

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