La sfida fallita nell’artico sulla rotta del nord-ovest
Michael Palin rievoca per Neri Pozza un’audace spedizione finita in modo tragico
Forse farà bene leggere Il mistero dell’erebus di Michael Palin (Neri Pozza), una storia di coraggio, avventura nella natura marina più selvaggia, pericolo, passione, tedio e morte. Forse aiuterà a dare un’altra prospettiva alle nostre vite di individui tappati in casa e braccati dal virus. Magari farà sognare, spingerà a immaginare gli sforzi corali tra gli equipaggi coordinati da una ferrea disciplina, inevitabile per affrontare condizioni tanto avverse. Però ricorderà anche la disperazione del cannibalismo pur di sopravvivere qualche giorno in più e gli assideramenti tragicamente solitari, in un mondo considerato ancora infinito, dove l’inquinamento e l’effetto serra erano impensabili, ma soprattutto gli uomini erano meno di un miliardo e non gli oltre otto odierni.
Preoccupati a fare di tutto per evitare il contagio, protetti dalle nostre mascherine, per noi sarà quanto meno stimolante ricordare come solo poche generazioni fa tra le marine occidentali (e senz’altro in quella britannica) veniva considerato esemplare mettere a repentaglio la propria esistenza, rischiare le sofferenze più terribili al gelo tempestoso dei mari nei due estremi del pianeta, per essere i primi a raggiungere i poli magnetici (oltre ovviamente a quelli terrestri), scoprire vie d’acqua in aree inesplorate dove nascono gli iceberg, studiare ghiacci, correnti, plancton, licheni e animali sconosciuti.
Una storia che si dipana per circa un secolo, dalla sconfitta napoleonica a Waterloo nel 1815, quando, infine libera dagli impegni delle guerre, la marina britannica si concentrò sulle grandi esplorazioni geografiche e scientifiche, per concludersi più o meno nel secondo decennio del Novecento con il raggiungimento dei poli. Ma che nel caso dell’epopea, allo stesso tempo drammatica e carica di mistero, delle due navi della Royal Navy Erebus e Terror si protrasse sino al rinvenimento dei loro relitti presso la penisola di Adelaide, in Canada, rispettivamente nel 2014 e nel 2016.
La racconta con passione l’attore-giornalista-scrittore inglese Michael Palin (noto per il suo ruolo comico coi Monty Python), per sua stessa ammissione «innamorato sin da ragazzino delle avventure sul mare». Palin visita i luoghi, ricerca negli archivi, parla con le famiglie dei discendenti, persino arriva alla baia del relitto della Erebus, «appena sommerso da pochi metri d’acqua, tanto che per decenni le cime dei pennoni rimasero emerse», a bordo di un rompighiaccio russo trasformato in nave per crociere turistiche nell’artico. Giusto una curiosità che lui rimarca dalla cabina: «La nostra nave ha un motore da 40.000 cavalli, quello a vapore ausiliario delle vele della Erebus ne aveva solo 25».
È la vicenda di un clamoroso fallimento: le due navi sparirono, tutti i 120 tra marinai e ufficiali persero la vita, incluso il comandante, il sessantenne sir John Franklin. E proprio per questo divenne emblematica di un’era, a sottolineare le difficoltà incredibili di quei viaggi. Un po’ come la sconfitta disastrosa della spedizione di Robert Falcon Scott al Polo Sud, nel 1912, è tutt’oggi più famosa e raccontata che non il trionfo del suo rivale norvegese Roald Amundsen. L’ultima riedizione inglese dei diari integrali di Scott è stata ben venduta anche all’estero.
Partite dal porto di Londra sul Tamigi nel maggio 1845, con a bordo riserve di cibo per quattro anni e pronte a trascorrere tre inverni bloccate nel pack artico, la Erebus e la Terror (velieri militari costruiti nel 1826-7 come piattaforme di mortaio galleggianti per gli assedi ai porti fortificati, poi convertiti per resistere alla pressione del mare ghiacciato) avevano il compito specifico di scoprire finalmente il passaggio a nord-ovest.
Erano gli anni del boom commerciale via mare. Le propulsioni dei navigli, specie quelli oceanici, stavano progressivamente rinnovandosi dalla vela al motore. Ma il Canale di Panama non era ancora stato scavato e il transito dall’atlantico al Pacifico via Capo Horn era considerato lungo, scomodo e pericoloso. Il molto più breve passaggio di nord-ovest tra la banchisa artica e il Canada settentrionale sarebbe stato rivoluzionario, se si fosse scoperta una qualche agibilità per i traffici commerciali. Però, dopo gli ultimi avvistamenti da parte delle baleniere nella Baia di Baffin ai primi di agosto e presso lo stretto di Lancaster, delle due navi e i loro equipaggi non si seppe più nulla.
Per due anni fu il silenzio. Ma dall’estate 1848 per un decennio ben 36 spedizioni cercarono di scoprire che cosa era stato della spedizione. Il libro tratteggia splendidamente quell’epopea tinta di giallo e misteri. Si parlò di scorbuto, di avvelenamento da piombo a causa della carne in conserva, si trovarono oggetti, resti di corpi forse mangiati dai compagni. Arrivarono le testimonianze degli inuit locali, che raccontavano degli ultimi superstiti disperati ancora visti nel 1850.
Il racconto è tutto da leggere. Uno dei più bei libri scritti sulla storia delle esplorazioni polari.
Dopo il 1815 La marina britannica si dedicò alle grandi scoperte geografiche per oltre un secolo