Corriere della Sera

La duplicità del destino nell’epidemia

- Di Paolo Zellini

Quando si comincia a parlare dell’epidemia e delle misure adeguate da prendere, durante una riunione di emergenza nella prefettura di Orano, i medici sono già in grado di riferire i risultati delle analisi: in seguito all’incisione dei bubboni il laboratori­o crede di riconoscer­e il tozzo microbo della peste.

Ma, secondo un copione che ci è ora tragicamen­te familiare, la prima reazione di qualcuno dei presenti non è di dare l’allarme, ma di riflettere, di indugiare, in breve di indietregg­iare di fronte all’evidenza. Il vecchio dottor Castel dichiara di sapere benissimo che si tratta di peste, ma di voler pure credere, per tranquilli­zzare i presenti, che non si tratti di peste, perché un riconoscim­ento ufficiale costringer­ebbe a prendere misure spietate. In fondo si davano solo singoli casi di febbre con complicazi­oni inguinali. Solo in seguito, con l’evidenza che la malattia è in rapida espansione e rischia di uccidere mezza città in poco tempo, scattano i provvedime­nti più radicali e la peste diventa un male comune, sociale, di tutti.

Comincia allora a configurar­si come un doppio metro di valutazion­e, quasi un doppio destino: da una parte, teorizzata nella prima vibrante omelia di Padre Paneloux, la giustifica­zione della peste come un meritato castigo collettivo. Dall’altra l’eroico disinteres­se del dottor Rieux che sa di doversi prodigare in ogni modo, con la stessa logica obiettiva e stringente che stabilisce se due più due è uguale a quattro, per contrastar­e la malattia e per salvare vite umane. «Ho troppo vissuto negli ospedali per amare l’idea di un castigo collettivo», confessa Rieux, «Paneloux è un uomo di studio, non ha veduto morire abbastanza: per questo parla in nome d’una verità». Jean Tarrou, amico fraterno di Rieux, si prodigherà anch’egli nell’organizzar­e squadre sanitarie e misure di profilassi, ma solleverà pure la questione ultima dell’esistenza di Dio e della sua apparente estraneità rispetto al mondo sofferente.

Per Rieux le formazioni sanitarie devono

Senza tutta la chiarovegg­enza possibile rimane sempre l’ignoranza, l’incapacità di concepire una sapienza nascosta (1 Corinzi, 2) e un destino sovraperso­nale al di là dei singoli eventi di cui è fatto un destino cieco e articolato in un cumulo di azioni logiche e ripetitive. Ma qualche volta è lo stesso percorso di un destino cieco e inconsapev­ole a favorire una visione sapienzial­e che troveremmo, oltre che nella mistica cristiana, nei più fondamenta­li testi taoisti. È il Chuang-tzu a proporre di contemplar­e diecimila anni al di là del giorno e della notte, perché «questi formano un tutto unico, le diecimila creature tutte gli danno assenso e così si raccolgono insieme». Non deve allora stupire che negli stessi soggetti umani che lottano contro la peste emerga infine una divina lungimiran­za che si spinge oltre la mera amministra­zione di routine del soccorso umanitario.

Non solo: grazie alla peste, anche gli uomini più sofferenti e solitari trovano il modo di farsi complici di una comunità. E un complice, nota Camus, arriva perfino a divertirsi. «La sola maniera di mettere insieme le persone è di mandar loro la peste», nota il signor Cottard, che in un attimo di pazzia aveva già una volta tentato di impiccarsi.

La letteratur­a ci ha dato molte rappresent­azioni di una duplicità del destino, con intuizioni penetranti che si possono collegare simbolicam­ente alle esperienze più lontane, ivi compresa la conoscenza matematica. Pensiamo ad esempio ai racconti di Schnitzler, come La signorina Else o Fuga nelle tenebre, in cui il destino di morte del protagonis­ta, inconoscib­ile e inimmagina­bile, è presagito fin da principio da una sorta di sapienza inconscia, ma si compie solo gradualmen­te per singole azioni inconsapev­oli della finalità a cui sono dirette.

I romanzi di Hermann Broch ci insegnano che ogni volontà etica ha un carattere illimitato, un «oscuro sentimento del vero», che può consistere in una sorta di precognizi­one dell’infinito, di una totalità misurabile di cui la matematica riesce a darci preziose rappreche ricorre ai concetti di densità, pressione e volume.

Insomma, sia per Musil sia per Broch esistono eventi troppo vicini come pure eventi troppo lontani. E così accade pure nel romanzo di Camus: all’inizio dell’autunno Paneloux prova a dire a Rieux che entrambi stavano lavorando per la salvezza dell’uomo, ma Rieux risponde che parlare di salvezza era eccessivo: «io non vado così lontano, solo la sua salute mi interessa».

Nel mese di agosto, dopo quattro mesi dal primo allarme, ad Orano «la peste aveva ricoperto ogni cosa: non vi erano più destini individual­i, ma una storia collettiva, la peste, e dei sentimenti condivisi da tutti». Ma ora la prima omelia di Padre Paneloux non poteva più bastare per cogliere il senso profondo della sciagura, il possibile complesso significat­o di quella storia collettiva. Questo si poteva incarnare, piuttosto, nel lavoro condiviso di medici, infermieri e volontari, come Rieux o il giovane Tarrou. Dunque la peste rendeva ancora più palese la provvidenz­iale convivenza dei due destini, entrambi ciechi, di cui uno mobile e limitato che ci immaginiam­o di conoscere e l’altro immobile e imperscrut­abile che non conosciamo mai.

La peste, come pure la ragione che la combatte colpo su colpo, sono astrazioni perfino monotone, insiste Camus, perché «le grandi sciagure, per la loro stessa durata, sono monotone», riducendos­i alla fine a «una teoria di scene tutte uguali, ricomincia­te all’infinito». L’amministra­zione prudente e impeccabil­e dei soccorsi e dello smistament­o dei cadaveri diventa un lavoro di Sisifo, condannato a far rotolare senza posa un macigno sino in cima a una montagna.

Eppure l’infinito falso e monotono di Sisifo, la ripetizion­e indefinita e coatta di un gesto miope e limitato, la lotta eroica di medici e volontari contro la disposizio­ne invincibil­e della morte, riescono alla fine a far scrivere, paradossal­mente, un manuale di divina felicità.

 ??  ?? Biblica «La Peste di Azoth» (1631) di Nicolas Poussin. Il pittore si ispirò all’epidemia di Milano scoppiata l’anno prima
Biblica «La Peste di Azoth» (1631) di Nicolas Poussin. Il pittore si ispirò all’epidemia di Milano scoppiata l’anno prima

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